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Posta Napolista / Sarri, il prodigio di una rivoluzione incompiuta

Stagione, scelte, discussioni intorno alla figura di Maurizio Sarri. Che ha costruito l’utopia di uno scudetto del bel gioco, ma ha anche parlato in maniera stridente con i suoi stessi ideali.

Posta Napolista / Sarri, il prodigio di una rivoluzione incompiuta
Sarri / Foto Matteo Ciambelli

Karl Popper

Ne “Le motivazioni di Elena”, un libro di Giancarlo Giuliani, ho ritrovato casualmente un passo di Karl Popper: «Ogni qual volta una teoria ti sembra l’unica possibile prendilo come il segno che non hai capito né la teoria né il problema». Questo pensiero ha dato vita ad una meditazione personale di quella che è stata sino ad oggi la più bella ed emozionante delle stagioni calcistiche del Napoli. Si è detto da parte di molti che questo era l’anno giusto per poter ambire a competere per la vittoria. La squadra sembrava pronta, nel terzo anno di guida Sarri all’impresa, sospesa tra lo scetticismo di molti e le speranze di chi da tanto tempo sognava ciò che nessuno osava chiedere: la conquista del palazzo.

La dirigenza, anche senza un mercato scintillante, finalizzato alla vittoria del campionato, aveva comunque optato per un mercato conservativo. Assicurando al proprio timoniere la presenza di tutti i titolarissimi secondo i parametri e le linee della politica societaria.

La speranza era collegata all’idea veicolata e poi assurta ad ideologia sarriana che il successo doveva passare attraverso la ricerca e lo sviluppo del bel gioco. Era necessario fare sì che il lavoro potesse sopperire al mancato arrivo di quei tasselli che avrebbero potuto costituire quel valore aggiunto che mancava alla squadra.

Rinunce consapevoli

Così, giornata dopo giornata, il Napoli ha prima meravigliato poi stupito anche i più scettici. Ma, come nella vita, quando non tutti i traguardi possono essere tagliati, al presentarsi delle prime difficoltà, si è arrivati al bivio della scelta. La decisione sofferta e condivisa di rinunciare consapevolmente al resto e indirizzare ogni sforzo sull’obiettivo più ambito.

Questa scelta ha segnato una spaccatura tra chi ha storto il naso all’abbandono del cammino europeo e chi ha ritenuto fosse un male necessario e quasi inevitabile. Eppure proprio quando si è optato in questo senso è iniziato un lento e carsico logorio. Da prestazioni convincenti e schiaccianti si è arrivati a momenti dove spesso la vittoria è giunta quasi inattesa; come inattese ono arrivate quelle battute d’arresto pur naturali e fisiologiche ma dannose, perché giunte nei momenti cruciali, dove non era ammissibile sbagliare.

L’inadeguatezza della rosa

Questo ha incardinato il dibattito sulla inadeguatezza della rosa. Di qui si è accesa la spaccatura tra chi ha sempre sostenuto che, sin dall’inizio, anche ad organico completo ed integro, la squadra non avesse sufficiente qualità e chi sosteneva che il materiale offerto al tecnico non venisse utilizzato a causa del suo ”fondamentalismo” non incline al cambiamento. Con conseguente svalutazione di quelle risorse che, se gestite opportunamente, sarebbero potute risultare utili.

Tra le due l’opinione tutta personale per cui la scelta di puntare su un nucleo già collaudato, che offrisse maggiori garanzie , fosse dovuta non al presunto integralismo tout court di Sarri, quanto alla volontà di ottimizzare quanto fatto, rinunciando, volutamente, alla formazione di quei membri dello spogliatoio ritenuti, forse, ancora immaturi e su cui non vi era il tempo di lavorare per concentrare ogni sforzo al raggiungimento dell’obiettivo di stagione.

Sarri avrebbe svestito, per opportunità, il ruolo di formatore di giovani promettenti. Che, nel rispetto delle delle loro caratteristiche specifiche, avrebbero necessitato di un nuovo e diverso progetto di gioco. Ogni scelta ha una contropartita e rinunciando alla loro integrazione si è rinunciato a forze fresche e nuove, capaci di apportare nuova linfa.

La bellezza come mezzo, non come fine

Forse Sarri, alla sua terza stagione in azzurro e già meditando su un suo probabile addio, aveva il desiderio di dimostrare ai tifosi, agli esperti, che la bellezza del suo calcio non era fine a se stessa. Il Napoli è stato il suo gioiello, la sua creatura. Al contempo, l’opportunità che gli ha donato la ribalta e una notorietà europea.

La scommessa-Sarri, colui che era stato la quarta scelta, a cui tanti non credevano nel dopo Benitez, ha regalato a tutti noi tifosi più gioie di quanto ci si aspettasse. Sarri ha mostrato, da subito, il suo essere personaggio genuino ma non ingenuo; criticato per le sue scelte, non solo tecniche; amato e osannato per la  filosofia di gioco basata su schemi geometrici da far impallidire lo stesso Euclide, ma tanto belli ed unici quanto usuranti.

Il suo calcio, gioia e delizia, ha mostrato la sua fragilità, perché legato alla scelta vincolata di interpreti necessari. Proprio la scelta degli interpreti ha rivelato l’esistenza di un nodo gordiano mai reciso. L’ambiguità della dicotomia tra quanto, spesso, dichiarato dal tecnico, circa la sua estraneità alle decisioni in tema di acquisti e gli acquisti risultanti dal mercato, potrebbe indurre a pensare che mirasse ad attribuire a se stesso i successi di quelle scelte. Ed addebitare ad altri la responsabilità degli insuccessi.

Arbitri e mentalità

Tra gli elementi condizionanti quelli arbitrali hanno direttamente o indirettamente inciso sul cammino della squadra. L’introduzione del Var come strumento di ausilio, volto alla corretta direzione dei giudici di gara, nella fase conclusiva del torneo, per il suo non sempre corretto utilizzo, è risultata fortemente condizionante. Gli errori arbitrali sono stati penalizzanti ma ad essi si poteva sopperire solo con l’esperienza e la mentalità la cui mancanza neppure il lavoro sul campo ha saputo sopperire.

Dire che lo scudetto è stato perso “in albergo a Firenze“ è stato un messaggio sbagliato che è finito col diventare un alibi appagante. Il compimento della rivoluzione si è così arrestato ad un passo dal “Palazzo”. A Sarri, che ci ha dato un calcio, patrimonio da custodire, va tutta la nostra riconoscenza, ma la dichiarazione sul ”troppo amore”, che suona come un addio, è stridente. Perché l’amore vero, come un fuoco, non diminuisce, come ogni sentimento, non muore ma si evolve e si trasforma sempre più in qualcosa di sublime senza infingimenti.

Sul finire, l’ultimo atto di questa bellissima storia, che, speriamo, non riservi un epilogo dove, il gioco delle parti si riduca nella farsa dell’attesa della prima mossa allo scopo di attribuire all’altro la responsabilità di una separazione. Adesso, nel rispetto di quell’amore dichiarato, si usino parole vere. In quanto pur essendo legittimo il desiderio di affrontare nuove sfide a completamento di una carriera, giunta forse tardivamente al suo apice, è corretto riconoscere alla controparte il merito dell’onestà e della correttezza di non aver mai mentito sulle sue reali possibilità ed aver messo in chiaro fin da subito i suoi limiti.

Ci venga lasciato l’ideale di calcio che va guardato in senso positivo, senza innescare i processi di rito alla fine di un ciclo , guardando con fiducia al futuro del club e con la consapevolezza che il progetto Napoli continuerà “alla grande”

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