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La bellezza di insegnare calcio ad Armando un bambino di sette anni

Breve racconto di un gol, di una partita, di un lavoro bellissimo e difficile: crescere dei bambini, educarli a fare i calciatori, capire e gestire la luce dei loro occhi.

La bellezza di insegnare calcio ad Armando un bambino di sette anni

Si affaccia la mamma. Ha una forchetta in mano.

“Mister lo faccio scendere… due minuti…”.

Il mister aspetta appoggiato alla macchina. Guarda il cellulare. Due minuti. Cinque. Dieci. Tredici. Si riavvicina al palazzo. Sta per bussare una seconda volta ma proprio in quell’istante sente il rumore del contatto elettrico. Il portone comincia a muoversi lentamente e finalmente sbuca Armando con la sua faccia bianca, le gambette magre che spuntano tra il pantaloncino e i calzettoni eternamente abbassati, i capelli biondi tutti scompigliati e lo zainetto del Napoli.

“Scusa mister…” dice con la voce chiusa da adenoidi che andrebbero operate e un sorriso sdentato. Ha la bocca sporca di qualcosa.

Il mister lo guarda. Ha già dimenticato il quarto d’ora d’attesa, la deviazione che ha dovuto fare per andare a prenderlo rispetto al solito tragitto, il traffico. La sola vista di Armando gli mette buonumore. Sorride anche lui.

“Stavi ancora mangiando?” gli chiede mentre si avvicinano alla macchina.

“Sì” risponde Armando con occhi impazienti.

“Hai ancora la bocca sporca, che hai mangiato?”

“Pasta e formaggino”, e mentre lo dice si pulisce col dorso della mano.

“E basta?” 

“Sì, non c’era tempo…tu già stavi sotto il palazzo…”.

“Scusami eh…” fa il mister con ironia.

Armando sorride. Ha colto. Ha 7 anni ma è incredibilmente sveglio.

“A scuola tutto bene?” fa il mister mentre si dirigono al campo.

“Sì sì,” fa Armando laconico con l’espressione scocciata di chi pensa ma perché stai toccando questo argomento.

“Hai fatto il bravo?”

“Un poco sì e un poco no,” con la sincerità che solo i bambini hanno quando si sentono al sicuro.

“Che vuol dire un poco sì e un poco no?! Perché un poco no? Che hai fatto?”

“Io e il mio amico facciamo sempre arrabbiare la maestra di italiano perché parliamo…quella strilla comeecché…! Mamma mia non ce la faccio proprio a sentirla…”.

“E tu non parlare col tuo amico, così lei non strilla…” fa il mister.

“No no mister…quella strilla sempre…sempre…” e guarda fuori dal finestrino il campo da calcio che si spalanca dinanzi ai suoi occhi famelici.

Argomento chiuso. Torna il sorriso. Armando apre la portiera velocissimo e si fionda sul tappeto verde mentre il mister va verso il magazzino a prendere le attrezzature.

“Vieni a darmi una mano…” fa il mister.

“Io porto i palloni,” dice Armando. 

Appena possibile tira via un pallone dalla sacca e mentre il mister prepara il campo in attesa degli altri bambini, Armando comincia a palleggiare, a calciare, libero, felice, sorridente. Non ci sono maestre che strillano. C’è una sfera che rotola, due piedini che la governano, una chioma bionda che la rincorre e due occhi azzurri avidi. Il mister lo guarda e senza esserne consapevole torna anche lui bambino. Arrivano gli altri. Arrivano tutti. E la scena si ripete: sportelli che si aprono di scatto e marmocchi che corrono via impazziti verso il campo, verso la palla, e mentre corrono sorridono senza saperlo e il mister li guarda e senza saperlo continua a sorridere anche lui. Torna bambino attraverso quei sorrisi. Nota una luce negli occhi di tutti. E capisce che è la luce che tutti i bambini hanno negli occhi quando fanno qualcosa che gli piace. Quando aspettano di fare la cosa che gli piace. E comprende che il suo compito più importante è quello di preservare quella luce e quei sorrisi.

Si comincia. Giochi, esercizi, correzioni, allegria. Poi la partita. Armando prende palla. E’ l’unico bambino biondo. E’ il più piccolo di tutti. Il pallone è enorme accanto ai suoi piedi, tanto che il mister non si spiega come fa a fare le cose che fa. Ne supera uno. Ne supera due.

“Passa!”

“Passa!”

“Passa a me sono libero!”

Armando non ascolta. Non sente niente. O se sente fa finta di non sentire. E’ sveglio. E’ ingordo. Ha fame. Di calcio e di gol. 

Ne supera tre. Davanti ha l’ultimo difensore. E’ il doppio di lui. Ha forza, spesso è scomposto ma ha una scelta di tempo negli interventi sempre ottimale.

Ora va a sbattergli addosso, pensa il mister.

E’ un attimo. Armando finta di calciare e con l’esterno, leggero come una farfalla, muove la palla. Lo spostamento d’aria che il difensore crea andando a vuoto è percepibile, quasi forma una nuvola di polvere. Armando alza la testa. Un centesimo di secondo per prendere la mira e poi sbam, collo esterno sotto l’incrocio. Gol. Corre come un matto per il campo con le braccia larghe, il vento ad accarezzargli la faccia bianca e il sorriso sdentato che parla di felicità mentre i compagni lo inseguono per abbracciarlo. Il mister si tocca la barba e ripensa a quello che ha visto. A quei dribbling. Al tiro scoccato in precario equilibrio. A quel gol. Poi vede Armando che continua a correre leggero e felice. Si guardano. Il mister nota di nuovo quella luce in fondo agli occhi. Ci si perde in quella luce. Torna bambino. Torna a sorridere senza saperlo, poi si gratta la testa e si ricorda qual è il suo compito più importante.

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