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A Napoli la borghesia, invece di sporcarsi le maniche, si preoccupa di come viene in foto

A Napoli la borghesia, invece di sporcarsi le maniche, si preoccupa di come viene in foto

Ripubblichiamo l’editoriale del Corriere del Mezzogiorno di oggi, 8 novembre, a firma del direttore Antonio Polito. Il tema non è calcistico, ma c’entra molto con quel che di cui scriviamo da più di un anno a proposito di Napoli e della sua borghesia.

A cavallo tra il successo cinematografico di Martone e il trentennale teatrale di Eduardo, si è svolta un’accesa discussione sull’immagine di Napoli, innescata da questo giornale. L’ha aperta Paolo Macry, questionando la rappresentazione filmica della città in cui Leopardi visse gli ultimi anni della sua vita; e in qualche modo l’ha chiusa Ernesto Galli della Loggia, dichiarando la irrappresentabilità di Napoli, se non come folklore. In mezzo, o ai margini, decine di interventi di intellettuali napoletani, pubblicati in gran parte sul Mattino. È su questi scritti che vorrei oggi attirare l’attenzione dei lettori. Pressoché come un sol uomo, seppure con qualche lodevole eccezione, questi scrittori, questi accademici, questi artisti, si sono infatti sollevati in difesa dell’immagine di Napoli.

Confermando così una vera e propria ossessione delle nostre chattering classes (le classi che chiacchierano). Sono davvero poche nel mondo le città in cui ci si occupa così spasmodicamente della propria immagine. Roma, o Milano, o Firenze, non sembrano avere molte angosce su quello che di loro si pensa nel mondo. Da noi, invece, si è arrivati perfino a nominare un assessore addetto alla bisogna (a proposito, che fine ha fatto?). Così quando Macry e della Loggia parlavano di «rappresentazione», quelli subito capivano «immagine», e scattavano come i cani di Pavlov. E si crucciavano che l’immagine non fosse buona, secondo l’imperativo categorico della «bella figura» che tanti danni ha fatto a questa città, dove si preferisce non fare per non rischiarla.

È come se questi buoni borghesi si chiedessero, ogni volta che se ne discute, perché mai l’immagine di Napoli non sia quella «giusta» dei loro studi professionali, dei loro uffici all’università, delle loro ville a Posillipo; e prevalga invece quella «sbagliata» del ventre di Napoli, che gli fa fare una «brutta figura» con i loro amici di fuori, o sui media del Nord. Già di per sé, questo è un segno di subalternità culturale e di mancanza di autonomia, che rende una classe dirigente non all’altezza del suo compito. Più che a realizzare, a produrre ciò che davvero costruisce, un pezzo alla volta, nei decenni e nei secoli, la cifra di una città, i cantori dell’eccezionalismo napoletano si occupano costantemente di come appaiono. Invece di sporcarsi le maniche, si preoccupano di come vengono in foto. Invece di leggere il mondo con gli occhi di Napoli (ciò che ha fatto della grande cultura partenopea, da Vico a Croce, da Basile a Eduardo, un classico della civiltà europea), si interrogano su come il mondo vede Napoli (il che rende la Napoli di oggi provinciale, con rare ma encomiabili eccezioni, come quella di Paolo Sorrentino, che dell’immagine se ne frega perché la fa, o di Giuseppe Galasso, che da Pozzuoli racconta la storia d’Europa).Così gran parte dei nostri intellettuali non compiono mai un passo avanti nella comprensione del dramma in cui sono immersi; e soprattutto non fa mai un passo avanti la città che proprio loro dovrebbero rappresentare e interpretare. Privandola così di una propria egemonia culturale, e generando la terribile sensazione di straniamento lucidamente espressa sul nostro giornale dal filosofo Roberto Esposito: «Tutto quel che accade qui sembra imitare un’immagine; come se fosse la realtà ad imitare la rappresentazione, e non viceversa».
Antonio Polito

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