In America è il “March Madness”. A Napoli un marzo di fuoco

Si chiama “March Madness”, letteralmente la “Follia di marzo”. È quel periodo del mese di marzo in cui gli americani appassionati di pallacanestro collegiale si siedono sul divano e, con immancabili birre e patatine, si godono un numero impressionante di partite, tutte di alto livello, con stadi pieni ed emozioni al limite, che condurranno poi […]

Si chiama “March Madness”, letteralmente la “Follia di marzo”.
È quel periodo del mese di marzo in cui gli americani appassionati di pallacanestro collegiale si siedono sul divano e, con immancabili birre e patatine, si godono un numero impressionante di partite, tutte di alto livello, con stadi pieni ed emozioni al limite, che condurranno poi alla scoperta della squadra vincente dell’intero torneo.
Rappresenta, dopo il Super Bowl, l’evento sportivo più appassionante degli Stati Uniti, dal vivo ma anche in Tv, con la CBS, l’emittente che ne ha i diritti, che paga ogni anno circa 1 miliardo di dollari per averne l’esclusiva.
Si svolge tutta in tre settimane, sempre a cavallo fra marzo e aprile.
Si comincia qualche giorno prima, con il cosiddetto “Selection Sunday”, ossia la domenica di inizio mese in cui una commissione autorizzata dalla NCAA (l’associazione sportiva collegiale americana) decide i nomi delle 68 squadre che parteciperanno al torneo finale: 31 squadre di altrettante università si qualificano alla fase finale vincendo la propria conference (la suddivisione territoriale in cui si divide qualsiasi sport americano), altre 37 vengono invece invitate in base a una decisione della commissione, che si basa su alcuni fattori: numero di vittorie, qualità degli avversari battuti e altri criteri che riguardano le statistiche via via stilate durante i precedenti mesi di stagione regolare.
Poi, il via: scontri ad eliminazione diretta, in gara unica e su campi neutri, uno spettacolo che richiama tifosi da ogni parte della nazione.
Ed è questa la forza della March Madness, il richiamo agli americani che si aggregano per tifare tutti uniti la propria squadra.
In più, il fattore sorpresa: perché, come ogni serie di playoffs che si rispetti, non è dato per scontato che la prima in classifica superi l’ultima e viceversa. Una “follia”, in effetti.
Tre week-end da vivere col fiato sospeso, aggiornando pian piano il bracket (il tabellone del torneo trovabile in questo periodo in ogni bar, café, locale d’aggregazione statunitense), condividendo qualsiasi ora del giorno e della notte, a seconda del fuso orario in cui ci si trova.
Le squadre che superano la prima fase vengono chiamate «Sweet Sixteen», quelle che hanno la fortuna di ritrovarsi in semifinale sono invece le «Elite Eight», quelle che arrivano in fondo accedono invece alle famose “Final Four”.
Ed è forse questo il momento più epico ed emozionante: le quattro squadre migliori a sfidarsi in due semifinali, tutte sullo stesso parquet, con uno stadio scelto per l’occasione che nel giro di poche ore ospiterà le due semifinali e la finale, per incoronare la vincitrice assoluta.
Un week-end pazzesco che quest’anno alzerà il sipario al Cowboys Stadium di Arlington, in Texas.
Un mese, dunque, tutto d’un fiato.
Un po’ come accadrà al Napoli. Dal Texas a Fuorigrotta, il nostro March Madness è al San Paolo: Roma, Fiorentina, Juventus e Porto, quattro squadroni da affrontare tra campionato e Coppa. Senza contare le trasferte di Livorno, Torino, Porto, Catania.
Non ci sarà la CBS, ma Sky e Mediaset Premium che si contenderanno gli spettatori che guardano dal divano.
Non ci sarà il bracket, ma i fogli dei tifosi a susseguirsi sui tavoli, che tra sorteggi e scontri diretti immagineranno un Napoli eccellente fino alla fine del percorso.
Non avremo “March Madness”, ma “’Nu marzo ’e pazze’”, più puro, e in fondo a noi andrà bene così.
Trenta giorni da vivere pieni come fossimo dall’altra parte del mondo.
Un marzo che si prospetta come fondamentale in questo primo anno di gestione Benitez, e che tanto potrà dire sul valore effettivo della squadra di oggi e di domani.
Per la contentezza di Rafa e del suo giocare ogni tre giorni.
In effetti, lo vedrei bene anche come allenatore di college, al di là dell’oceano. Con la speranza che, come loro, alla fine si possa alzare al cielo anche un trofeo.
Gennaro Arpaia

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