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Ma non è il momento di fare i processi

Non è una domenica storta: è la domenica storta. Quella che ci si ritrova ad affrontare ogni anno, quando dopo aver disegnato per mesi l’acquerello con il sogno più bello lo si vede strappato in mille coriandoli. Succedeva quando si perdeva al San Paolo contro il Milan ed i rossoneri si facevano una doccia di ottantamila applausi, ma s’è visto anche di recente: quando due anni fa l’Udinese uscì dal San Paolo con tre punti ed Inler non esultò; oppure l’anno scorso, quando Bologna (quella Bologna che ci fece sognare l’anno prima) castigò una squadra che voleva la Champions, relegandola nella Serie B dell’Europa che conta. Ma era sempre ‘na sera ‘e maggio, n’addore ‘e rose: strano vedere i coriandoli che non è nemmeno primavera.

Adesso il campionato può andare in soffitta, nonostante quella matematica tante volte invocata come ultimo barlume di speranza ancora non scudetti la Juventus. Adesso, poi, c’è bisogno di stare attenti, perché alle spalle c’è un Milan che non gioca nemmeno granché bene ma, storto o morto, riesce spesso (troppo spesso) a fare bottino pieno; e nessuno vuole fare quella dannata preparazione Champions d’inizio luglio che ti spezza le gambe in primavera. Adesso bisogna mettere i piedi per terra, e ritrovarsi. Ritrovarsi, per non crollare.
Ma è ancora domenica, e la prossima partita pare lontana una vita quando l’ultima è appena finita, ed è finita come è finita. Non è il tempo delle riflessioni: è il tempo dei processi. Di quelli peggiori: quelli dei tifosi.

Sul banco degli imputati sale per primo Mazzarri, uno che porterebbe avanti le sue ragioni anche sul patibolo col cappio al collo: ha fatto i suoi errori, certo, ma nemmeno sembra giusto demolirlo così, lui che con quel sibillino ed irritante e nemmeno troppo corretto “guardiamo partita dopo partita” non ha promesso niente a nessuno. Prese una barca che affondava tre anni fa e la portò in Champions, facendo anche respirare l’odore dello scudetto. Eppure, se domani si dimettesse, nessuno gli urlerebbe “salga a bordo, cazzo”. Ma il calcio, si sa, è crudele. Ed i tifosi, ancora di più.

Secondo in giudizio, chi non ti aspetti: Edinson Cavani. Che forse s’è dimenticato le banderillas in Uruguay. Oppure sarà arrivata una scossa, 43 giorni fa, che l’ha destabilizzato – che gli sia venuta la madridite? Quella malattia brutta che ha colpito il Pocho l’anno scorso, quella febbre che ti porta ad andar via, perché vuoi vincere, perché vuoi più soldi, perché a Napoli non ci stai più bene? Chissà. Fatto sta che, dopo il tiro dal dischetto di oggi, sono venuti a galla i ricordi di scuola calcio: il rigore si tira o alto, o rasoterra: mai a mezza altezza. Errori del genere non sono da Matador. Chissà.
Ma tornerà a segnare. Gliele dovessimo andare a prendere noi, le banderillas.

Poi arriva Bigon, come rappresentante di una società che non si è saputa muovere sul mercato di gennaio, quando bisognava fare il salto per lo scudetto. Il centrocampista per far respirare i titolari non c’è, e nemmeno un altro esterno, e nemmeno il vice Cavani. Tant’è vero che Calaiò è il simbolo dell’errorrore societario.

Insomma, poco ci manca che vengano rinviati a giudizio pure i magazzinieri, rei d’aver passato le scarpette sbagliate ad Hamsik.
I tifosi dovrebbero rimanerne fuori, dai processi: dovrebbero sostenere la squadra sempre e comunque, sia quando si vince col Manchester City (ricordo: c’era sempre Mazzarri in panchina) sia quando si perde col Chievo Verona. La squadra ha bisogno di tutti, e c’è una stagione da salvare: non è il momento di fare i disfattisti: è il momento di tifare.
Di fare i tifosi.
Non i magistrati del pallone.
Antonio Cristiano

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