Del suo giovane conterraneo Vargas, lo scrittore cileno Antonio Skarmeta assicura di avere «un’opinione che migliore non si può». E non solo per le doti calcistiche, che il gigante amabile della letteratura latinoamericana, poeta, sceneggiatore, regista, autore del «Postino» portato sullo schermo da Massimo Troisi, dimostra di apprezzare con grande competenza. Ma anche per la condivisione del calcio come poesia e genuina passione.
Turboman, nonostante i 22 anni, ha lasciato un’impronta profonda in Cile.
«Per essere così giovane mostra un grande registro di risorse, un talento che solo dà una lunga esperienza. È precoce. Ha una virtù che mi entusiasma: avanza a grande velocità col pallone, senza guardarlo, come se ci fosse un contatto magnetico fra i piedi e la sfera. Questo gli consente di analizzare chi dei suoi compagni è in una migliore posizione per ricevere il passaggio. O anche di decidere di avanzare lui stesso verso l’area, spiazzando le difese».
Vargas è un gran lavoratore…
«Come tutti i ragazzi che emergono nel calcio cileno, proviene da una famiglia umile e allo stesso modo dei poeti cileni – Neruda, Gabriela Minstral – si mantengono fedeli alle famiglie e origini. Quando tornano dall’Europa in visita a casa fanno rotta sui nidi fraterni e convivono con la loro gente. Sono sportivi coi piedi bien piantati in terra e non si montano la testa».
Alla partenza da Santiago, c’era l’intero fan club, tutto al femminile, a salutarlo.
«È ovvio che le ragazze lo cerchino. Ma credo che Eduardo abbia portato a Napoli la famiglia, perchè ne abbia cura e gli prepari il brodino di pollo».
Ha promesso di finire la carriera alla Universidad: farà bene anche lontano dalla sua terra?
«Sono tifoso della Universidad da bambino e solo negli anni ’50-’60 la mia squadra ha avuto una stagione buona al pari di quella passata. Poichè facevano ballare i rivali in campo, li chiamavamo allora “il balletto azzurro”, dal colore della maglia. Se legge l’epigrafe di Kandisnky del mio romanzo “Il ballo della Vittoria” troverà questa citazione”: “Quanto più l’azzurro diviene profondo tanto più invita l’uomo verso l’infinito, desta in lui la nostalgia del puro, e, in ultimo del sovrasensibile”. Vedere giocare la “U” quest’anno e vederla vincere – grazie al tecnico Sanpaoli e a Vargas – i due campionati locali e la Coppa Sudamericana, per la prima volta portata a casa da una squadra cilena, mi ha reso metafisicamente azzurro. Quanto al ritorno annunciato di Vargas, lo aspetteremo giorno e notte e, nelle nostre future sconfitte, lasceremo cadere per la sua assenza una lacrima azzurra sulle nostre pallide guance».
Per Vargas giocare con la maglia di Maradona è un sogno diventato realtà: crede che le aspettative siano troppo alte?
«Uno sportivo gioca per la sua squadra e contro i rivali, non a favore nè contro le aspettative. Siamo irrealisti: chiediamo il possibile. I miei timori sono altri: quando un attaccante è troppo abile e con le sue finte irrita una volta dopo l’altra i difensori, partono i falli intenzionali e malevoli che a volte spediscono i cracks a riposo prolungato. Spero che i re del catenaccio non mi mandino Vargas in ospedale».
Maradona ha incarnato gli splendori e le miserie del gioco del calcio?
«Gli dei non sono obbligati ad essere perfetti. Fa parte della leggenda che abbiamo gloria e declino».
Lei guarda sempre il calcio alla tv?
«Lo guardo alla tv, ma in alcune occasioni, quando sono ispirato da ansie suicide, vado allo stadio indossando la mia maglia azzurra della “U” col numero 31 e il nome Skármeta impresso sulle spalle, un regalo di un amico, il produttore Enrique India, irriducibile tifoso del Colo Colo. Allo stadio sono stato premiato con vari traumi encefalo-creanici, mi hanno demolito una vertebra e fratturato il naso con un cazzotto».
Soffre per il calcio?
«Sì, molto, soprattutto quando grandi professionisti della mia squadra o della nazionale toppano la stoccata finale: allora urlo, dilettanti, amateurs!».
Le sarebbe piaciuto essere calciatore da bambino?
«Più di ogni altra cosa al mondo. Ho trascorso l’infanzia a Buenos Aires. Nei vivai di Belgrano, tutti i ragazzini di 10 o 11 anni erano meglio di Pelé. Siccome io ero un brocco, mi mettevano a porta, perchè era dove facevo meno danno».
Nel suo unico incontro con Massimo Troisi parlaste ore di calcio e di donne?
«No, non fu questo l’ordine esatto. Il corretto è questo: 1) di donne, 2) di Neruda e di come interpretare il ruolo de “Il Postino” ,3) di auto, 4) di calcio. Il terzo tema fu l’unico a non interessarmi».
Nel calcio attuale c’è sempre meno spazio per la fantasia, il gioco è sempre più consacrato al dovere di vincere?
«Non credo. Non penso che l’efficienza tecnica e la opacità pragmatica portino a grandi risultati. Ci sarà sempre un tecnico geniale che emerge sul resto dei mortali – un Guardiola, un Bielsa, un Mourinho – o un calciatore destabilizzante che umilia i mediocri speculatori di un risultato».
Visto dall’altro lato dell’Oceano, il calcio italiano continua ad essere troppo chiuso a catenaccio, a paragone con la versatilità dei fantasisti sudamericani?
«Per favore: l’Italia è stata campione del mondo quattro volte!»
Vargas figura nella rosa dei 20 calciatori più popolari al mondo. Crede possa arrivare all’altezza di un Messi?
«In centimetri o in qualità? In centimetri, sì. In qualità, mi piacerebbe ma non lo credo».
Il blu della “U” e l’azzurro del Napoli: solo una questione di gradazione?
«Love is blue…Ho già cantato troppe odi a Partenope, inclusa la mia opera teatrale “Diciotto Carati”».
Allora, forza Napoli?
«È quello che dico ad Aurelio de Laurentiis: quando facciamo un film dal mio romanzo “Un padre da film”? Sono disposto ad assumerne la regia”.
Paola Del Vecchio (Il Mattino)