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Sarri ha capito che alla Juve si vince da democristiano

Ha passato un anno a barcamenarsi tra l’anima rivoluzionaria e quella istituzionale. Poi si è adeguato. La Juve gli scudetti li vince per forza d’inerzia

Sarri ha capito che alla Juve si vince da democristiano

Si intuisce una malinconia, in questo scudetto della Juve non ancora aritmetico. Un senso di mancata appartenenza dei protagonisti, come avercelo tra le mani mentre ti sfugge. E non c’entra la pandemia, il lockdown, tutta la retorica d’accatto del senso di colpa. Più che altro è l’occupazione altrui – in negativo – delle prime pagine, che fa tristezza: la Juve ha vinto ancora, zitta zitta, e nessuno se n’è accorto. O peggio: a nessuno importa granché.

La Juventus vince dal 2011. E lo fa d’inerzia. Con le concorrenti che si autoeliminano, implodono, non reggono. E’ come se quasi vincesse in contumacia: fa il suo, senza nemmeno troppa grazia, ma lascia il campo agli altri, facciano loro. Dopo 30 giornate il vantaggio è +7, abbastanza per dirsi al sicuro senza tema di strane capriole della scaramanzia. E fa un po’ specie, ricordando l’insistenza al limite del masochismo con cui le “altre” si sono affannate a rincorrere la ripresa come se davvero avessero qualche possibilità di concorrere. La Lazio, più dell’Inter. Che tenerezza.

In un solo weekend di calura – ma è solo l’ultimo esempio – la Lazio senza Immobile è esplosa all’Olimpico davanti al Milan, e l’Inter a San Siro addirittura battuto dal Bologna. Il momento di lucidità dell’alcolista, un’epifania: non siamo in grado, non abbiamo le rose per gestire un finale di campionato giocando ogni 72 ore, semplicemente – ma non diciamolo, per carità – non siamo la Juventus. Ribadito anche con un certo rispettabilissimo orgoglio, intimo, nella difesa di un’alterità che però conduce sempre allo stesso destino.

“Non siamo la Juventus”, nel frattempo, però, ha preso anche a erodere l’autocoscienza  – spesso inscalfibile – dei bianconeri stessi. Una crisi d’identità di cui porta il peso Sarri che ha passato un anno intero a barcamenarsi tra l’anima rivoluzionaria e quella istituzionale, un po’ creativo un po’ militante. Fino ad “arrendersi” ai giocatori, o almeno a lasciare che lo raccontassero così. Salvo poi ricredersi a fasi alterne. Funziona così: un giorno ti disegnano col pugno di ferro, malinteso dai tuoi campioni, un altro come “abile gestore” di una rosa di personalità dense come il DAS.

La Juve ha vinto, invece, con le mezze misure: Sarri ha fatto il democristiano, non potendo battere l’ego di Ronaldo, ci si è alleato. Le chiacchierate a bordo campo, il dibattito sui cambi, ogni parolina e gesto finiti triturati nella febbre da backstage. Preso per cambiare il sistema ma non la sostanza (“vincere giocando bene, ma vincere”), ad un certo punto s’è voltato e ha fatto il percorso a ritroso: intanto vinciamo, poi imbastiamo il racconto del “come”. La Juve, a dispetto delle impalcature per il rinfresco della facciata, è rimasta fedele al “risultatismo”. Un concetto imbattibile, per definizione.

Il “come”, per l’appunto, non è riconducibile alla Juve: hanno fatto tutto gli altri. A Torino non riescono a uscirne, è un’investitura ambientale. Persino quando a inizio anno, il cambio di paradigma poteva aprire uno spiraglio, il Napoli – per tutti la grande avversaria, assieme all’Inter di Conte – s’è accartocciato per i fatti suoi. Napoli bruciato d’inverno, Lazio e Inter sciolte d’estate. E’ rimasta la Juve, che manco fa più notizia. Quest’anno più che mai, mentre ognuno s’occupa della crisi sua, arriva come il Natale lo scudetto bianconero. Zitto zitto, un po’ malinconico.

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