Il Forrest Gump della bicicletta: lascia il lavoro di barista, va in Sud America, compra una bici usata e lo gira tutto
Su L'Equipe il racconto di Théo Février. Non aveva mai pedalato prima. 14.000 km in 286 giorni, tra deserti e tribù indigene che volevano ucciderlo credendolo il diavolo. Ha dormito in cella, forato 53 volte. Ci ha fatto un film

Foto da theofevrier.com
Il Forrest Gump della bicicletta: lascia il lavoro di barista, va in Sud America, compra una bici usata e lo gira tutto
L’anno scorso un ventisettenne francese, tale Théo Février, ha deciso di lasciare il suo lavoro di barista a Hossegor per attraversare il Sud America da nord a sud, da solo, su una bicicletta comprata sul posto, di seconda mano. Senza preparare nulla, senza allenamento, senza sapere nemmeno che strada avrebbe fatto. Un viaggio di nove mesi, 14.000 chilometri e 150.000 metri di dislivello, affrontato totalmente a capocchia. E’ sopravvissuto non si sa come. E L’Equipe ha raccolto il suo racconto in prima persona. È davvero difficile da tagliare, per quanto è incredibile. L’integrale è qui. Il suo sito è qui.
“Inizialmente avevo prenotato un biglietto per il Sud America per un viaggio di circa dieci mesi. Volevo attraversare il continente con lo zaino in spalla, senza troppi programmi. Sono arrivato a Quito, in Ecuador, e poi sono andato a fare volontariato. L’idea era di imparare la lingua e fare surf. Ma mi sono annoiato presto; non riuscivo a trovare alcun significato nel mio viaggio. Per sfizio, ho preso un aereo, sono andato nel nord della Colombia e ho comprato una bicicletta. Non ne sapevo nulla, non avevo mai pedalato. Ho messo il mio grosso zaino sul portapacchi e partii, con l’obiettivo di andare da Cartagena de Indias (sulla costa settentrionale della Colombia) a Ushuaia (al confine con l’Argentina, nell’arcipelago della Terra del Fuoco). Sapevo di avere 14.000 km da percorrere, ma non sapevo quanto tempo ci avrei messo. Essendo partito con l’attrezzatura estiva, il mio imperativo era arrivare a Ushuaia prima dell’inverno. Non conoscevo nemmeno l’inizio del percorso! Sapevo solo che per arrivare a Ushuaia bisognava andare dritto a sud!”.
Parte e finisce su un’autostrada colombiana per 50 km. “Non riuscivo proprio a gestire la mia bici, perché pesava 60 kg ed era molto ingombrante”. Poi capisce che deve andare per sentieri. “All’inizio, dormivo spesso vicino alle dogane o alle stazioni di polizia. Andavo dalla polizia e chiedevo se la zona fosse “sicura”. Il più delle volte, mi dicevano che non era una buona idea piantare la tenda da nessuna parte, e mi accampavo lì. Una volta, in Colombia, sono stato persino scortato dalla polizia in un posto dove ero davvero al sicuro”.
“In Perù, ho pedalato in alta montagna, su passi tra i 4.800 e i 5.000 metri. Scalarli richiedeva un’eternità perché a quell’altitudine mancava l’ossigeno e perché la mia bici era un inferno. Sono riuscito a superarne uno a 4.850 metri dopo aver pedalato per tre ore per percorrere… due chilometri. Mi sono ritrovato tra le nuvole, tra la neve e la pioggia, costretto a scendere un passo di notte per raggiungere la città di Oyon, nel Perù centrale e trovare un posto dove dormire asciutto e al sicuro. La mia lampada frontale era quasi scarica; con il freddo, erano tutte scariche. Sono sceso a tutta velocità e ho finito per raggiungere Oyon esausto, completamente congelato. Quando sono arrivato, la mia unica possibilità era andare alla stazione di polizia per vedere se potevano ospitarmi. Mi hanno detto: “Nessun problema, ma al momento abbiamo un problema di terrorismo in città. Possiamo ospitarti per la notte, ma in una cella”. Quella volta, ho passato la notte rinchiuso in un posto che puzzava di piscio ed escrementi”.
E’ passato un attimo per l’Amazzonia. “Mi sono fermato in Ecuador per comprare un packraft, una canoa gonfiabile, con l’idea di discendere un affluente del Rio delle Amazzoni, il Rio Napo, per 1.000 chilometri, in completa autonomia. Il tratto ecuadoriano del Rio Napo è un po’ turistico. Ma una volta raggiunto il versante peruviano, si entra nel profondo dell’Amazzonia. A quel punto, non avevo più alcun contatto con i miei genitori, ero completamente sparito dai radar, ero davvero in totale autonomia. Mi sono trovato a confrontarmi con comunità indigene che credevano nel diavolo, e in particolare con quella che chiamano la “pela cara”, gente che arrivava dagli Stati Uniti per decapitare le popolazioni indigene, recuperare i corpi, vendere i volti e il grasso umano. Venivo costantemente attaccato con machete e fucili. Per dieci giorni, tra le otto e le dieci ore al giorno trascorse a remare e il continuo obbligo di giustificarmi, è stato un vero calvario. È stata l’esperienza più bella del viaggio e quella in cui ho avuto più paura. Paura di morire, in effetti. Di notte, sentivo rumori che suggerivano la presenza di persone. Una sera, sono rimasto paralizzato nella mia capanna abbandonata e ho davvero pensato che fosse la fine per me”.
E invece non è morto. E non è morto nemmeno quando ha pedalato per 800 chilometri di fila nel deserto, in Argentina, “con un vento contrario di 70 chilometri orari. Non raffiche, vento costante. È stato estenuante. 100 chilometri di rettilinei, solo per trovare un piccolo bivio alla fine, per altri 100 chilometri di rettilineo… In quel momento, mi sono detto: “Cazzo, che senso ha?”. Non mi divertivo più. Sono passati due mesi senza vedere un albero. Quando ne ho rivisto uno, sono crollato e ho iniziato a piangere”.
“Ho avuto anche qualche problema con l’attrezzatura. Ho forato cinquantatré volte. La mia bici non era affatto adatta ai viaggi. L’ho comprata di seconda mano; c’era scritto “per uso occasionale”. Beh… Anche il portapacchi non era in grado di sostenere tutto il peso. L’ho rotto due volte, il che mi ha costretto a camminare e spingere la bici per 40 chilometri con tutta la mia roba in spalla, prima di raggiungere un paese per ripararla”.
Quando è arrivato in Patagonia s’è rilassato: “Mi trovavo in una regione molto ventosa, con paesaggi mozzafiato, laghi e fiumi turchesi. Avevo ancora 3.000 chilometri da percorrere, ma sentivo già che era la fine. E’ stato allora che ho capito perché avevo fatto quel viaggio. Se non avessi avuto tutti quei problemi, con l’attrezzatura, ma anche fisici – il ginocchio si era rotto, avevo avuto problemi alla bocca, allo stomaco, all’intestino, tutto il resto – se fosse stato troppo facile, mi sarei fermato molto prima”.
“La mia corsa contro il tempo verso Ushuaia si è conclusa giusto in tempo, il 6 aprile 2024. Il giorno dopo, l’intera area era ricoperta da venticinque centimetri di neve”.
Ovviamente ci ha fatto un film.