Paltrinieri: «Non è vincere che mi fa stare bene, ma lavorare tutti i giorni per un sogno»
Al Corriere della Sera: «Da piccolo sfidavo mio padre di continuo ma lui non lasciava mai che lo battessi. Se non lo meritavo, non vincevo. Un grande insegnamento di vita»

Tokyo (Giappone) 29/07/2021 - Nuoto / Olimpiadi Tokyo 2020 / foto Insidefoto/Image Sport nella foto: Gregorio Paltrinieri
Sul Corriere della Sera una lunga intervista a Gregorio Paltrinieri. Ha vinto 3 ori mondiali, i 1.500 all’Olimpiade di Rio 2016 e l’argento negli 800 e il bronzo nella 10 km a Tokyo 2020, reduce dalla mononucleosi.
«A dieci anni, da ranista, ero molto forte. Poi ho dovuto abbandonarla per decisione non mia: in un’estate sono cresciuto tutto d’un botto, non ho più trovato la coordinazione e il sincronismo tra braccia e gambe. Mi sono rifugiato nello stile libero e ho scoperto una straordinaria acquaticità».
Cos’è l’acqua per lei?
«Abbraccio, coccola, emozione: tutto. L’acqua è vita. È quello per cui ho sempre lavorato, è il senso delle mie giornate da quando avevo dodici anni, è il mezzo attraverso cui pormi degli obiettivi. In breve, è sentirmi a posto con me stesso: se me la togli, mi privi della mia essenza».
In acqua si sente a suo agio, molto più che sulla terra.
«Sono certo che non in tutte le situazioni terrestri saprei cosa fare e mi sentirei a mio agio: a volte ho paura di sbagliare, come tutti, di comportarmi in modo non adeguato. In acqua, invece, in ogni circostanza in cui mi metti me la cavo: la soluzione la trovo sempre».
Racconta che da piccolo adorava sfidare suo padre in qualsiasi gioco
«Desideravo fortissimamente batterlo e lui non me lo permetteva: tornavo a casa piagnucolando dalla mamma ma mai una volta in vita sua mio padre ha lasciato apposta che lo battessi per farmi piacere. Se non lo meritavo, non vincevo. Un grande insegnamento di vita».
Ha mai rinunciato a una sfida?
«Non lo farei mai. Se ti tiri indietro una volta, è finita».
Confessa di non godere mai delle sue vittorie.
«Non mi sono mai veramente goduto una vittoria. Mai. Me lo impedisce come sono fatto: cerco sempre il pelo nell’uovo, vorrei di più, sento subito questa malinconia che mi proietta verso la prossima sfida. Passo più tempo a cercare l’errore che a far festa. In Brasile, ad esempio: ho vinto ma senza record del mondo. Ho trascorso giorni a rimproverarmelo. L’euforia pura è durata sì e no cinque secondi: quando ho toccato la piastra e ho visto che ero primo. Stop».
E continua:
«Non è vincere che mi fa stare bene, perché non mi sento mai appagato: è lavorare tutti i giorni per un sogno».