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Salemme: «Essere nato a Napoli implica che uno debba “fare” il napoletano, si è imprigionati nei cliché»

A La Stampa: «Se sei napoletano devi bere il caffè bollente, tifare Napoli e adorare pizza e mozzarella. Se dicessi che ho la residenza in Toscana mi darebbero del traditore» 

Salemme: «Essere nato a Napoli implica che uno debba “fare” il napoletano, si è imprigionati nei cliché»

La Stampa intervista Vincenzo Salemme, in scena al teatro Alfieri di Torino, da giovedì, con lo spettacolo «Napoletano? E famme ‘na pizza!», tratto dal suo libro omonimo, del 2020. Uno spettacolo sugli stereotipi legati alla napoletanità. Gli viene chiesto cosa è, per lui, Napoli.

«Napoli è davvero mille cose, ma la curiosità è capire cosa implica esserci nati. Il napoletano è l’unico al mondo che non lo deve solo “essere”, ma lo deve “fare”. Se sei napoletano, devi bere il caffè bollente in tazzine arroventate, essere devoto a San Gennaro e tifoso sfegatato del Napoli, oltre che fanatico per pizza e mozzarella. Devi sapere “A livella” a memoria e non essere mai di malumore, perché se no che napoletano sei? Guai a farmi scappare che a Napoli ho una casa in affitto perché la mia residenza è in Toscana. Mi darebbero del traditore. Insomma, una serie di cliché che a volte un po’ imprigionano».

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«Pensare che da bambino questa città mi faceva paura. Sentito il detto “Vedi Napoli e poi muori”, credevo che John Kennedy fosse morto perché prima dell’attentato era stato in visita nel nostro capoluogo. Lo scrissi pure in un temino in classe e le suore si arrabbiarono tanto».

Su Eduardo, con cui ha lavorato da giovane.

«Nonostante il fatto che fosse leggendariamente austero, io lo vedevo fragile e mi sembrava di avere a che fare con un nonno. All’inizio dovevo fargli tenerezza perché ero un ragazzino magrissimo, e invece di un ruolo da comparsa mi fece dire anche qualche battuta per farmi guadagnare di più. Diceva: “O uagliò tiene fame…”».

 

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