La figlia di Paolo Villaggio: «Era coltissimo ma ogni tanto impacciato, gli dicevamo che sembrava Fantozzi»

Al CorSera: «Non sapeva usare computer e telefono. Quando stava male mi disse che aveva sempre pensato di essere matto. Con il cibo era incontrollabile»

la figlia di paolo villaggio

Il Corriere della Sera intervista Elisabetta, figlia di Paolo Villaggio, autrice del libro «Fantozzi dietro le quinte. Oltre la maschera. La vita (vera) di Paolo Villaggio», edito da Baldini+Castoldi.

Racconta le lunghe e insopportabili attese del padre insieme al fratello, quando erano piccoli, mentre Villaggio era nei locali a fare cabaret. E l’ultima volta che ci ha parlato.

«Stava già male, era ricoverato e cercavo di trascorrere più tempo possibile con lui. A un certo punto mi disse: “Sai che ho sempre pensato di essere matto? Da quando sono nato”. Era davvero preoccupato e questa cosa mi colpì perché con la sua follia, invece, era riuscito a tirar fuori personaggi che hanno fatto ridere tutti».

Dice che è stato un padre «sui generis, molto speciale», mai banale, ma che non è stato facile condividerlo con la notorietà.

«Lo fermavano di continuo per chiedere autografi, baci, abbracci, e poi spuntava sempre una macchina fotografica. Quando abbiamo lasciato Genova e ci siamo trasferiti a Roma, agli inizi del ‘68, ha avuto questa botta di notorietà. Dopo è diventato normale anche per me, ma per un lungo periodo ho detestato i fotografi che ci invadevano casa, mi dicevamo fai così, mettiti là…».

Invece le vacanze erano bellissime.

«Perché all’estero nessuno lo conosceva e ci lasciavano tranquilli».

Quando scoprì di avere il diabete non fece nulla per curarsi.

«Con il cibo era incontrollabile e poi non dava retta a nessuno. Quando fu costretto a muoversi in sedia a rotelle si prese un autista: andava in giro con lui, fin dal mattino, per il primo cappuccino con i cornetti…».

Cos’aveva in comune con Ugo Fantozzi?

«Beh, mio padre era un uomo coltissimo. Mi fece leggere Marcuse quando ero adolescente, e non capii nulla. Anche mio figlio Andreas, che adorava, lo ha sempre trattato da adulto: a lui faceva leggere Kafka. Detto questo, non aveva alcuna manualità, non ha mai cambiato una ruota, non sapeva usare il computer, men che meno gli smartphone. Ogni tanto era un po’ impacciato, tant’è che in privato gli dicevamo: guarda papà che così sembri Fantozzi. Però con il suo personaggio più amato penso che avesse in comune soprattutto la tenacia».

 

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