Haber: «Il mio ruolo più difficile? Quello di padre. Mi sento inadeguato, ma ci sto provando»
Al CorSera: «Al mio debutto, a 7 anni, feci pipì sulla scena. Mia madre, per la vergogna, fece finta che non fossi figlio suo. Da piccolo preferivo le botte allo studio».

Sul Corriere della Sera un’intervista ad Alessandro Haber. Ha lavorato con registi come Bellocchio, i fratelli Taviani,
Bertolucci, Avati e Fellini, ha vinto un David di Donatello e 4 Nastri d’Argento. Ha appena pubblicato il libro autobiografico «Volevo essere Marlon Brando», edito da Baldini+Castoldi.
Racconta che quando era bambino e viveva con la famiglia a Tel Aviv, gli piaceva andare allo zoo.
«Mi incantavo davanti agli animali e in particolare adoravo i gorilla: gli buttavo tante noccioline, loro mi sorridevano e me le ributtavano. Avrei voluto giocare con loro ed entrare nella gabbia, che era una specie di palcoscenico».
Ha sempre voluto fare l’attore, fin da piccolissimo.
«Una strana ossessione, una malattia… mi travestivo, inventavo spettacolini peri miei genitori, ero scatenato».
Racconta gli aneddoti legati alla sua gioventù, come quando scappò da scuola.
«Sono proprio scappato! In Israele, dove ho vissuto fino ai 9 anni, in collegio i Frères mi picchiavano sulle mani con il caucciù perché in verità ero incontenibile, rispondevo male, avevo sempre la battuta impertinente: meglio le botte che studiare. E una volta mi sono rifugiato ai margini di un bosco, un’avventura decisamente molto trasgressiva, ma purtroppo calò la sera, si fece buio, faceva freddo… e cominciai ad avere paura. Per fortuna, vedevo da lontano le luci della città, che un po’ mi rassicuravano. Sono rimasto là fino all’alba, quando finalmente mi ha ritrovato mio padre: ero salvo! Però ancora oggi, quando vado a dormire, non riesco ad addormentarmi in una camera completamente buia, ho bisogno che la serranda lasci filtrare un po’ di luce, non riesco a sostenere le tenebre totali, con l’oscurità mi assale un senso di claustrofobia».
Anche in Italia i professori lo picchiavano.
«Quando siamo tornati in Italia, prima a Castiglione dei Pepoli poi a Verona, i professori mi picchiavano con il battipanni, ma non provavo grande dolore, perché evidentemente sentivo che le botte me le meritavo. Le medie le ho fatte in sei anni, perché prendevo sempre 4 in condotta e non potevano mai promuovermi all’anno successivo. Mi era già cresciuta un po’ di barba quando raggiunsi il diploma, pagato da mio padre. A me quel pezzo di carta non è mai interessato, non era da incorniciare: l’unico mio obiettivo era fare l’attore. E il mio primissimo debutto avvenne proprio a Tel Aviv, nel teatro parrocchiale, facendomi la pipì sotto…».
Spiega perché:
«Avevo 7 anni e mi affidarono il ruolo di protagonista nella recita scolastica, ma a un certo punto con i compagni ci venne da ridere, non ricordo il motivo, forse perché qualcuno di noi aveva sbagliato una battuta o non si era ricordato una frase del testo da pronunciare. Insomma, rido talmente tanto che comincio a pisciare ed era talmente tanta, che il rigagnolo scende piano piano lungo il palcoscenico, cade giù in platea e finisce ai piedi del preside. Mia madre, presente in sala, credo abbia fatto finta, per la vergogna, che non fossi figlio suo. Un debutto di m… D’altronde lei, quando poi ho iniziato il mio percorso, mi ripeteva sempre “cambia mestiere!” e io rispondevo testardo no, non cambio! Era preoccupata per il mio futuro, mi vedeva inquieto, piangevo, mi disperavo quando non venivo preso in qualche spettacolo o film e poi, quando finalmente ho cominciato a partire per le tournée, si raccomandava supplicandomi: “non farti subito riconoscere”».
Il ruolo più difficile che ha dovuto affrontare in carriera? Risponde:
«Quello di padre, che la mia adorata figlia Celeste mi costringe a interpretare da quando è nata 17 anni fa. Mi sento inadeguato, comunque ci sto provando, lo sto vivendo per lei, che è stato un regalo di Antonella, la donna che ho sposato tre anni fa dopo che ci eravamo lasciati. Se non avessi Celeste sarei vuoto, arido, abbrutito. Di sicuro non sono un bravo genitore, non riesco a dirle mai di no, non sono capace a imporle delle regole… insomma il personaggio di padre mi riesce davvero male».