Siamo vecchi umarell di paese: ammiriamo gli altri e sparliamo della diversità. Alimentiamo pregiudizi invece di fare sana autocritica
Sempre lo stesso strabuzzato ritornello: “ma che sport è?!”. Notificato a tutte le chat in copincolla, fino a notte fonda. Per sentirci al calduccio in un’unica provincialissima famiglia di umarell: vecchi e impalati a guardare Psg e Bayern giocare a pallone in un modo a noi sconosciuto, artefatto, bellissimo. Spolliciando sui social in cerca di comprensione, di stupore condiviso, ammaliati da quello spettacolo d’arte varia che chiamano football, mentre a noi tocca lo sferragliare meccanico dell’italianissimo calcio. Le partite a vapore, lo sbuffo della noia, quelle linee di passaggio a ritroso come a tessere una litania. Non c’è bisogno di affondare il colpo, ci siamo capiti: la Serie A digestiva, post-prandiale, da pennica. Ecco, quella.
L’italiano – esterofilo per cliché – ha questo vizio: la cecità selettiva. Ammira Mbappé e Neymar inventare cose a ritmi da quattrocentista, e poi con la stessa prontezza di riflessi rilancia il sospetto che l’Atalanta alimenti le sue prestazioni simil-europee a doping. Stesse mani, stessi occhi, stessi pregiudizi a compartimenti stagni: siamo noi. Un giorno ammiratori, l’altro ispettori.
L’Italia che “cufecchia” mentre l’Europa viaggia altrove, dovrebbe dirci qualcosa, indirizzarci verso una serena autocritica. Lo sdegno per la reazione avversa (scusate, è un tic semantico da bugiardino vaccinale) di Gasperini contro l’ennesimo controllo anti-doping a Zingonia, va di pari passo con la nostra difficoltà ad accettare la difformità. Giudichiamo il più delle volte per riflesso condizionato: guarda come corre l’Atalanta, chissà cosa prendono… Ma Psg e Bayern no, lì non può esserci trucco né inganno.
La parabola dell’Atalanta è rappresentativa di un sistema. Vediamo Gosens, Hateboer, Zapata e De Roon frullare il campo spesso con un’ansia affascinante, e non capiamo. “Corrono tantissimo, troppo”. Abbiamo già avuto modo di sfatare questo mito, e lo rifacciamo con le statistiche aggiornate: non è vero che l’Atalanta corre più degli altri; l’Atalanta corre meglio degli altri. È diverso. Inter, Lazio, Napoli, Genoa, persino il Parma, hanno percorso più chilometri della squadra di Gasperini, finora. Solo che in campo non si vede. Perché gli altri evidentemente corrono a vuoto, interpretando spesso il calcio (che è uno sport di scatti, aggiustamenti, sprint e deviazioni) come una gara di mezzofondo un po’ flaccida. Non capiamo, e mandiamo gli ispettori.
L’Atalanta è un ponte invisibile per l’Europa. È un’appendice. Non è un caso che la scorsa estate fu ad un passo dall’eliminare dalla Champions proprio il Psg. Non è un caso se all’estero s’è ritagliata una nicchia di considerazione lontana dagli stilemi del nostro calcio. Prima della sfida al Real Madrid (finita come è finita) Valdano la definì “una squadra d’autore, organizzata, intensa e ambiziosa, che nasconde i limiti tecnici dei suoi giocatori”. “Una squadra che parla attraverso il pallone”.
L’Atalanta con gli ispettori antidoping alle calcagna (meglio, il tifo di chi intimamente spera che trovino qualcosa) racconta la chiusura mentale del calcio italiano. Che osserva lo splendore altrui con malcelata invidia, ma assuefatto all’idea della sua alterità: come giocano bene quelli, un sogno irraggiungibile. E che per avvilimento si ritrae. Non fa autocritica, no. Persevera nella caccia alle streghe. L’Atalanta corre, quindi si dopa. Il chiacchiericcio di fondo per isolare il naif. Come si fa nei paesi. Ma a bassa voce, perché il sonnambulo non si svegli. I sonnambuli, va da sé, siamo noi.