Il profeta della grande bellezza domina la Premier non subendo gol, da noi stanno riabilitando il “brutto” Allegri. A Napoli ci raccontiamo ancora che “non meritavamo di perdere perché abbiamo dominato”

“Non chiedo mai ai miei giocatori di vincere. Gli chiedo di giocare bene”.
Il dettaglio notevole di questa dichiarazione snob di Guardiola è che è del 2011, l’anno in cui lui allenava il Barcellona e Sarri il Sorrento. La volgarità del risultato fine a se stesso. Sentite oggi come suona agée. Ora che ce ne stiamo imbarazzati a fare le faccende di casa mentre il Napoli accumula percentuali bulgare di possesso palla inerte. Ora che lo stesso profeta della Grande Bellezza domina la Premier League con “un prototipo di calcio posizionale”, come lo chiama Paolo Condò su Repubblica. Un meccanismo difensivo “rotante che porta Cancelo a fare il regista centrale, Bernardo Silva e Sterling gli apriscatole laterali e Gundogan il cannoniere”.
“Colpisce, di questo City la rapidità con la quale a ogni pallone perduto corrisponde un pressing di cinque/sei uomini in apnea per recuperarlo: un tema già visto e apprezzato, ma ad altre velocità”.
Sorpresa: a fronte dell’irredimibile litania del “non meritavamo di perdere perché abbiamo battuto il record mondiale di tiri verso non si sa che”, il campionato inglese si vince con la difesa. Inedita, certo, ma difesa. Prendendo meno gol di tutti, per vincere. “Giocare bene”… quello viene dopo, erano sfizi profittevoli nel 2011, dieci anni fa.
Il City di Guardiola che ha battuto 4-1 il Liverpool con ben due costruzioni da dietro sbagliate da Alisson (la chiusura del cerchio concettuale, il karma persino) veniva da sei partite di campionato consecutive senza subire gol. 14 gol subiti in 22 partite. Una fortezza conquistata l’ultima volta dal Tottenham Hotspur che era ancora novembre.
El Pais ha analizzato minuziosamente questa “doppia mutazione” di Guardiola, trattandolo quasi come un virus infestante. Ed in effetti pochi come lui in questi anni hanno contagiato ideologicamente il calcio. A volte patologicamente.
Nelle sue prime undici stagioni in panchina Guardiola non s’era mai dovuto abbassare a rigenerare una squadra esausta come l’olio del fritto. Non aveva superato la barriera professionale dei quattro anni e mai aveva dovuto affrontare la paura dei suoi campioni, messi di fronte all’evidente possibilità del fallimento. Il 21 novembre a White Hart Lane ha toccato il fondo contro Mourinho, proprio lui, sprofondando al nono posto con la peggiore media gol di tutte le sue squadre: 1,5 a partita. Uscendo dal campo l’epifania: “Dobbiamo iniziare a vincere le partite”.
La folgorazione sulla via di Damasco si traduce in una contrita autocritica. I cronisti hanno registrato con stupore questa dichiarazione:
“Un difensore non può muoversi prima che il suo avversario prenda una decisione. Quando vuoi anticipare partendo dal presupposto che l’avversario prenderà una decisione, sei nei guai. I difensori devono sempre aspettare per vedere cosa succede. Mané o Salah fanno sempre la stessa cosa: attaccano gli spazi, e i difensori centrali devono difendere la loro area”.
El Pais la definisce “febbre sperimentale”. Conclusa a Natale col recupero del 4-3-3. Con quel lavoro isterico di recupero palla che si diceva più su, non ne ha più persa una. La media gol è risalita a 2,3 a partita, senza centravanti. Guardiola è passato dall’utilizzo di Delap da centroboa a lasciare Agüero in panchina anche in Coppa Carabao. Mahrez, Ferran Torres o Sterling hanno cominciato ad occupare quello spazio in maniera vorticosa. “Non abbiamo un giocatore che possa vincere le partite da solo, o segnare tre gol ogni partita. Dobbiamo raggiungere l’obiettivo come squadra”.
Non c’è bisogno di sfruculiare Guardiola per sentirci fuori moda, da queste parti. Secondo Sconcerti “grandi squadre come Roma, Napoli e la stessa Atalanta” hanno “sbagliato epoca. Giocano bene a tratti e soprattutto dentro una modernità che non serve più”.
Siamo nel mezzo di un neo puritanesimo tattico, nel quale Pirlo – dapprima presentato al calcio italiano come il Maestro di Pirlolandia – batte la Roma con una squadra “Allegrizzata”, ed è bravo lui ad aver accettato la conversione mica l’originale ad aver intuito la questione un decennio prima. Il vituperato Allegri, quello che vinceva gli scudetti brutti davanti a squadre bellissime che accumulavano 91 punti troppo spettacolari per valere meno dei suoi 95.
E’ un codice. D’un tratto scopriamo che il Milan è primo perché “gioca facile” (e ha Ibra, certo), l’Inter di Conte è sempre stata terribilmente pragmatica (e ha Lukaku, ovvio), e la Juve di Pirlo ha preso la svolta italianista tornando alla ragione (con Ronaldo, chiaro). Non serve allungarsi a Guardiola, per spiegare questa riproposizione didascalica delle basi filosofiche del gioco: bisogna vincere! E’ questione di puro adattamento evolutivo. E invece no. Una parte di noi s’è impantana nell’estetica. Corbo oggi scrive:
“Se è vero che a Napoli sono passati straordinari tatticisti come Marchesi, Lippi e Bianchi, ma il pubblico ama ancora Vinicio e Sarri, la logica porta a immaginare un nuovo allenatore che non prometta scudetti, ma almeno spettacolo“.
Una resa preventiva, che ha a che fare col distacco dalla realtà, quella quotidiana proprio. Gattuso l’ha ripetuto più volte: si gioca ogni tre giorni, non c’è tempo di allenare alcuni meccanismi, tipo l’aberrante costruzione da dietro. Ha dettato una verità che non è pronto evidentemente ad ascoltare lui stesso. Sono tempi, questi, in cui badare al sodo. C’è arrivato persino quell’integralista fighetto d’un Guardiola, per non dire di mezza Serie A. Mentre noi finiamo a raccontarci che abbiamo perso sì, ma non vale: perché in verità meritavamo di vincere. Vecchi, passati, fuori moda.