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Pasquale Casillo: come in Italia un gigante dell’imprenditoria può essere distrutto da un pentito di camorra

Aveva un impero economico: 2.300 miliardi di fatturato. Venne travolto. Assolto 13 anni dopo, quando il suo Paese gli aveva tolto tutto. E oggi i giornali gli dedicano poche righe

Pasquale Casillo: come in Italia un gigante dell’imprenditoria può essere distrutto da un pentito di camorra

Quella di Pasquale Casillo è una piccola storia ignobile. E come tale, il giorno dopo la sua morte ha avuto poche righe sui quotidiani. Alcune scritte con passione, ma quasi sempre – fa eccezione Il Mattino – con poche righe a disposizione. Per raccontare un signore morto ieri e che 25 anni fa era a capo di un vero e proprio impero economico come ricorda Il Sole 24 Ore (che trenta righe gliele ha dedicate): “2.300 miliardi di fatturato, duemila dipendenti e quasi sessanta società controllate”. Era soprannominato il re del grano, il numero uno del settore: una qualifica che si contendeva con Franco Ambrosio.

Poi, come è consuetudine in Italia, succede che un bel giorno un pentito di camorra ti tira in mezzo, ti chiama in causa, e la vita viene ribaltata. Sei l’Alberto Sordi di “Detenuto in attesa di giudizio” di Nanni Loy. Con l’aggravante che è il 1994, Tangentopoli ancora calda sul fuoco, Berlusconi da meno di un mese vincitore delle elezioni. I magistrati sono considerati poco meno che Dio, sono i cherubini: angeli molto prossimi a Dio.

Pasquale Galasso, pentito di camorra, lo tira in mezzo: strani rapporti col boss Carmine Alfieri, Antonio Gava, favori alla Comunità europea per ottenere finanziamenti, e poi il pallone che tira sempre: presunti incontri organizzati proprio dal boss Alfieri per favorirne l’acquisto del Napoli (stava provando anche a comprare la Roma). Letti oggi, gli articoli di allora mettono i brividi. Il dubitativo è un optional, le carte della Procura sono oro colato. Perché, al fondo, vige l’antico principio: se sei un imprenditore di successo, qualcosa di illecito devi aver commesso. Su tutto fa premio l’odio sociale, quel “fuori un altro” sussurrato o gridato sempre con disprezzo. E che, via via, ha lasciato il proscenio ai mediocri. Qui c’è un articolo dell’epoca, di Repubblica, da leggere. Oggi, il quotidiano fondato da Scalfari gli dedica un trafiletto nell’edizione Napoli e uno nell’edizione Bari. In Nazionale niente.

Ovviamente Casillo – come sbagliarsi – venne arrestato in modo spettacolare, davanti al figlio di nove anni. E per lui scattò l’accusa di associazione mafiosa: il 416 bis. Era il re del grano. Era il presidente del Foggia dei miracoli che in quei giorni si stava giocando addirittura l’ingresso in Europa. Ma in Italia tra un imprenditore affermato in tutto il mondo e un pentito di camorra che soddisfa la sete di vendetta sociale e amplifica il potere delle Procure, non c’è partita. Il primo è destinato a soccombere. Lo sa. E non può farci niente. È un copione già scritto, steso come un lenzuolo. Sa che non ha alcuna chance di scampare alla sua Via Crucis.

È un dettaglio, non più di un dettaglio, che diciassette anni dopo – dopo peregrinazioni da un Tribunale all’altro – Pasquale Casillo sia stato assolto per non aver commesso il fatto. Sembra una barzelletta. Nel frattempo, lo Stato italiano gli ha portato via tutto: l’impero economico, quindi le imprese, i soldi, l’onorabilità, la salute. La vita. Tutto. E nessuno paga. Non i magistrati. Non i giornalisti che si sono accaniti per farsi belli davanti alle Procure in attesa di altri poveri cristi da spolpare.

Era anche indebitato Casillo, sì. Come quasi tutti gli imprenditori. Il Banco di Napoli chiese il fallimento della “Casillo Grani SNC”. Il finanziamento ponte di 100 miliardi, approvato da alcune banche, venne fermato. L’amministratore giudiziario si oppose. Casillo, evidentemente, doveva scomparire. Schiacciato. Quando uscì di galera – perché in Italia in galera ci vai subito anche se dopo sarai assolto -, chiese di essere processato per direttissima. Povero illuso. Avrebbe dovuto aspettare tredici anni per la sua – ormai inutile – assoluzione. Lo avevano distrutto. L’Italia aveva distrutto un suo uomo illustre.

Casillo, consentiteci questa punta di recriminazione territoriale (noi che da sempre siamo fieri oppositori di questa visione del mondo), pagò anche l’essere meridionale: di San Giuseppe Vesuviano, parlava napoletano, trasferì il suo impero a Foggia. Aggiungiamo che era sbruffone (non è ancora un reato). Girava il mondo, in Russia era un’autorità. Raccontava – non tutti gli credevano – che in quel Paese il suo autista fosse un giovane poi col tempo diventato presidente del Chelsea: proprio lui, Roman Abramovich. Volete che Casillo non avesse rapporti con la camorra? Chissà, magari se fosse stato di Rovigo o di Vigevano, se la sarebbe in qualche modo cavata, sarebbe stato considerato più presentabile. En passant, ma mica tanto, Casillo aveva anche riportato in edicola il quotidiano Il Roma che fu di Achille Lauro, vi lavoravano fiori di giovani giornalisti (molti hanno fatto una signora carriera): portavano notizie, il giornale vendeva.

Ma il meccanismo di stritolamento è più forte di qualsiasi cosa. Antonio Giordano, sul Corriere dello Sport, ricorda la lettera che un anno fa Casillo scrisse al presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «Mi hanno accusato ingiustamente. Ho perso tutto e sono stato assolto. Ora rivoglio dignità».

Il giornale immediato.net ne riporta altri stralci:

Sono Pasquale Casillo, imprenditore italiano attivo nel settore del grano, del calcio e del commercio, salito agli onori della cronaca alla fine degli anni ’80”, affermò in una lettera lo storico presidente rossonero. “La lettera che mi pregio di inviarvi, è stata spedita dalla Confindustria di Foggia, mia città adottiva, a tutti i loro associati. La invio affinché venga fatta chiarezza una volta per tutte, sulle mie vicende giudiziarie e soprattutto personali. Dopo 20 anni di ingiusta persecuzione subita da parte dello Stato Italiano, tutte le accuse nei miei confronti sono cadute e sono andate in prescrizione, senza che si arrivasse nemmeno ad un solo processo contro di me! Il mio è l’accorato appello di un cittadino italiano, che dopo tanti anni di battaglia, ha visto restituita la sua dignità di uomo, padre ed imprenditore. La mia storia, alla fine, è una storia di riscatto, nonostante tutto”.

È come se fosse stato improvvisamente rapito da uno Stato straniero. Che in questo caso, però, era il suo. Quella di Pasquale Casillo è una storia esemplare. Ce ne sono tante altre. Oggi, i giornali gli hanno dedicato poco e nulla. Il Paese non riflette neanche un nanosecondo sulla distruzione di un grandissimo imprenditore, potente a livello mondiale, per mano di un pentito e di un implacabile sistema mediatico-giudiziario. Di fatto, la garrota dei nostri giorni.

Casillo è morto a Lucera, lo piangeranno i suoi pochi amici (tra cui Zeman). L’Italia – quel che ne resta – passa avanti e aspetta il prossimo da stritolare, mentre in sottofondo passano le dichiarazioni di Speranza, Di Maio, Azzolina.

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