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Siamo diventati tutti (anche gli ultras) Made in Sud e pizza gourmet

Il Napoli è la squadra della città e non potrà mai essere un’impresa come le altre, ADL prima lo capisce e meglio è, basta trattare i tifosi come dei mentecatti, essendo essi – e la città – il suo business.

Siamo diventati tutti (anche gli ultras) Made in Sud e pizza gourmet

Tendo a prendere sul serio le critiche di cari amici all’imprenditore ADL. Uno, in particolare, non iscritto né al partito dei papponisti né a quello dei supporter del pappone (tra i quali immagino lui annoveri anche me), mi espone il suo ragionamento, che in buona sostanza è questo: il Napoli è la squadra della città e non potrà mai essere un’impresa come le altre, ADL prima lo capisce e meglio è, basta trattare i tifosi come dei mentecatti, essendo essi – e la città – il suo business.

Il fondamento del “meritiamo di più”

Aggiunge poi che la pretesa del risultato, il “meritiamo di più”, avrebbe un suo fondamento proprio per gli straordinari livelli raggiunti negli ultimi dieci anni (e qui tesse un elogio, sia pure parziale, del produttore cinematografico, delle sue capacità).

Bene. Mentre lo seguo in parte nel primo argomento, tendo ad essere meno incline alla comprensione sulla seconda asserzione. Certo, il Napoli è un “bene comune”, come si suol dire, ma è anche un’impresa capitalistica, sempre più all’americana (per molti versi diversa, assai diversa dal capitalismo familista immorale o “di stato” dei sabaudi vinciuti, che spende e spande, che tiene alla vetrina in cui ostentare milionari addominali a tartaruga e servilismo arbitrale, media proni e presunta etica gladiatoria).

La cose cambiano

Le cose cambiano, anche qui, molte lo sono da ben più di un decennio. Prendiamo il Napoli di Maradona: tutt’altro contesto, sociale e culturale. C’era, si, l’imprenditore Ferlaino ma Diego arrivò grazie al credito delle banche, si mosse la DC locale, un’autentica potenza che i napoletani votavano in massa; in qualche misura, col voto clientelare, erano davvero azionisti di quella società e partecipi di una straordinaria stagione, quella che ci avrebbe portato i primi ed ultimi scudetti.

Le cose cambiano, la città è profondamente mutata per molti, tanti versi. Abbiamo dimenticato lo sguardo sornione di De Crescenzo che divulgava la sua particolare versione dell’epicureismo, che era un fare a meno di tante cose, e mancano anche l’ironia di Pazzaglia, la timidezza di Massimo, la curiosità di Pino, l’autocritica feroce di Eduardo. Oggi abbiamo uno che vuole uno stadio piccolo, in cui lo spettacolo calcistico sia sempre più e solo spettacolo, evasione, lontano dai temi della vita delle persone, da diluire tra panini di Mac Donald, cheer ladies ed eventi collaterali per famigliole innocue in luogo delle tifoserie organizzate.

Mi piace? No. Ma non riesco a vedere alternative e nemmeno a non considerare il lavoro di un uomo comunque con tratti di genio  qualcosa di fronte a cui togliersi il cappello, da additare a modello, sostenere, un piccolo miracolo, date le tragiche condizioni di partenza; sta poi a noi vivere diversamente l’evento sportivo, esigere dallo spettacolo la lotta, l’epica, il bello. E il capitalismo in sé non è il male assoluto. Anzi, al sud e a Napoli è benefico, è perfino democratizzante, rompendo con il feudalesimo della politica partitica, con le pratiche clientelari e del malaffare, liberando le energie, l’intraprendenza vista da ultimo col cavalcare la tigre del turismo con flessibilità e velocità, sottraendo terreno e gioventù al male.

Il consumismo del “meritiamo di più”

E d’altra parte, il consumismo insito nel “meritiamo di più”, oltre ad essere oggettivamente brutto, una nota stonata, uno stridore che provoca una fitta al cuore, un coro lugubre, uno schiaffo all’identitario “al di là del risultato” che tristemente archivia, una marcia di avvicinamento all’affine risultatismo juventino e un opposizione all’etica cavalleresca esibita in queste ore da un maestro vero come Marcelo Bielsa, è anche schizofrenia pura nella misura in cui non vede il suo esser speculare alla riduzione di tutto a mercato.

La verità riaffiora dietro la stolta polemica contro chi vede il calcio dalla comoda poltrona di casa, che offusca quella storica dei curvaioli contro la piccola borghesia dei distinti: siamo tutti imborghesiti, nessuno escluso. Si, tutti inchiattilliti, tutti accomodati idealmente sul divano con in mano un telecomando, tutti assonnati e infiacchiti, tutti made in sud, tutti essere napoletani è meraviglioso, tutti pizza gourmet, tutti riprenditi la bottiglia di vino perché sa di tappo, tutti con la faccia disgustata col cameriere ma tutti “e magnatella n’emozione”. Tutti, compresi gli ultras. E la loro lotta di classe contro il padrone/pappone assume tratti quasi politicistici, da amministratori e burocrati del tifo più che da elite intelligente e appassionata. Lo si vede nell’argomentare successivo alla triste vicenda della maglia restituita a Callejon, in molti commenti facebook.

Il tartufismo, la presa di distanze che non è mai davvero tale, mai sincera e comunque mai netta, per non urtare la suscettibilità di chi ha messo a punto l’idiota trovata, per la preoccupazione di non rompere un fronte, di non darla vinta ai leccapiedi di Aurelio. Leggendo questi esercizi di cerchiobottismo, questo arrampicarsi sugli specchi, viene quasi da preferire la spontaneità dell’ottuso autore del gesto. Un balordo che viene, in fondo, scagliato in un gioco sporco, in una piccola stupida guerra messa in piedi ormai parecchi anni fa, quando non c’era l’alibi degli obiettivi mancati, dello scarso impegno della squadra e – rispondo qui al mio amico – delle aspettative sorte dalla drastica salita di rango che i viziatelli di oggi debbono solo ed esclusivamente all’odiato cinepanettonaro.

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