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Ode a Mazzarri che ha fritto il Napoli con l’acqua

L’atto d’amore di un mazzarriano per una squadra dal gioco pragmatico e nervoso capace di andare molto al di là della propria forza. Se De Laurentiis avesse creduto in lui…

Ode a Mazzarri che ha fritto il Napoli con l’acqua

Essere mazzarriano

Faccio una dovuta premessa: ho visto con i miei occhi Maradona e il suo calcio immaginifico, le sue traiettorie come versi impossibili di un Rimabud, i suoi gol e ancor di più i suoi assist come fossero la concretizzazione del Don Chiasciotte di Orson Welles o del Viaggio di G.Mastorna di Fellini, ovvero due film mitici ma… mai realizzati, il suo essere leader amato e rispettato da compagni e avversari, perché rispettoso era lui nei confronti di tutti quelli che sudavano e lavoravano per divertire e divertirsi in campo, il suo rendere ordinario ciò che la fisica in primis ci dice essere quanto meno complicato e complesso. Ma ho visto anche tanti altri Napoli.

E tutti hanno avuto un’anima, un carattere, uno stigma che li ha identificati. Di molti fatichiamo a ricordare il volto, oltre che le (scarse) imprese, di altri ricordiamo qualche episodio, qualche particolare. Un po’ come con le persone: alcune ci colpiscono e ne ricordiamo tutto, di altre a stento ricordiamo il nome o magari un gesto.

Ecco, a parte l’iperuranica èra maradoniana, e a parte il presente (e il futuro) sarriano,  posso affermare con serenità di essere stato ed essere un mazzarriano di ferro.

Cos’è il calcio

Il calcio non è una religione, per fortuna. Anche se viene maledettamente usato come tale per motivi di opportunità commerciale, di pseudo-controllo sociale, per convogliare in un luogo con caratteristiche, come dire, extra-territoriali, lo sfogatoio di segmenti marginalizzati e per questo violenti di una società ormai troppo composita e sfrangiata.

Il calcio non è nemmeno una totale perdita di tempo, però, per fortuna. È infatti un fenomeno umano, antropologico ed universale (ovunque nel mondo, tranne forse nei territori più interni di deserti o foreste inesplorati, un campetto di calcio lo trovi sempre), cavalcato come molto altro dal semplice capitalismo consumistico prima, dal turbo-capitalismo di oggi poi (gli immani patrimoni dei potentati economici russi, arabi e cinesi degli ultimi 15 anni, da Abramovich a seguire, ne sono la piena testimonianza), usato come clava per stordire tutti quelli che, purtroppo, sono stati tenuti o si sono tenuti ai margini della conoscenza e dello studio, incapaci di comprendere le dinamiche sociologiche ed economiche nelle quali, volenti o nolenti, siamo tutti inseriti.

Ebbene, stabilito che il calcio non deve assurgere a metafora di conflitti o contrapposizioni filosofiche di varia natura, perché ne è invece, in certo qual modo, un deliberato strumento, può essere preso però ad esempio di come funzionino i ‘gruppi umani’ che, fissato un obiettivo e contando su abilità tecniche specifiche, mettono a frutto una guida, un tempo determinato e delle qualità umane, lavorative e immaginative.

Risultato superiori alle attese

Non è affatto contraddittorio essere conquistati e convinti dal gioco studiato, provato, praticato e applicato di Sarri (sembra roba facile ma, signore e signori, non lo è minimamente), e allo stesso tempo essere romanticamente, ma anche intellettualmente, o meglio antropologicamente, legati alla squadra di Mazzarri, quelle per intenderci dei vari Grava, Aronica, Pazienza, con in panchina un Dossena o uno Yebda, per non parlare di Hoffer, Dumitru e quanti altri.

Non lo è perché sono stati ottenuti risultati nettamente superiori alle proprie possibilità attraverso una costanza di applicazione e intensità che ha saputo sfruttare al massimo i propri limiti prima ancora che i propri pregi.  In quella squadra, dove già brillavano l’atipicità di Hamsik e i guizzi a ritroso di Lavezzi (se rivedete molte delle sue azioni perforanti noterete che la prima cosa che il Pocho faceva, ricevendo palla, era un primo bruciante movimento all’indietro verso la propria metà campo, per disorientare il suo marcatore, per poi, sterzando improvviso e velocissimo, tagliarlo fuori nel puntare verso la porta avversaria), Mazzarri ha reso incandescenti piedi e corsa di giocatori dai limiti evidenti a tutti.

Cavani

E poi, Cavani. Ma Cavani non era quel Cavani prima di giocare nel Napoli di Mazzarri. Esattamente come Grava, Aronica e Pazienza non erano quei Grava, Aronica e Pazienza, prima di sentirsi parte di un organismo dalle infinite risorse nervose.

Sì, perché a volte le squadre sono proprio simili alle persone. Di quanti nostri amici o conoscenti pensiamo, semplificando ma non certo sbagliando, che siano persone dolci o scombinate, oppure fredde o, appunto, nervose? Le squadre, quando condotte da allenatori con personalità, ambizione, determinazione, diventano organismi con un proprio carattere, una fisionomia che le fa riconoscere e mettere in relazione esattamente come accade con e tra le persone.

E così, se l’indolenza mi sembra il tratto distintivo della squadra di Benitez, soprattutto nel suo secondo anno (la genetica e incoscia superiorità ‘internazionale’ degli eredi del vicereame spagnolo di cui siamo pur sempre gli epigoni), la cazzimma, l’irriducibilità, lo scatto nervoso sono i tratti di quel Napoli mazzarriano lì, la squadra che più di tutte in assoluto ha segnato e ribaltato punteggi nell’ultimo fatal quarto d’ora, quello nel quale le forze ti vengono meno e ti accontenti di portare a casa il risultato senza farti troppo male.

Quel quarto d’ora finale

E invece, i mazzarriani arrivavano ai minuti finali con una carica e una riserva nervosa spaventosa, pallettoni di adrenalina sparati a mille in grado di generare visioni, minuti finali e di recupero liquidi, nei quali poteva accadere (ed è accaduto spessissimo) di tutto, minuti nei quali si intuiva, anzi no, si ‘sapeva’, che un gol, un ribaltamento, un colpo di coda, un arrembaggio piratesco era possibile, anzi palpabile. Quale altra squadra ha fatto della sua auto-narrazione, la narrazione di uno scontro ai confini del tempo di gioco, la narrazione cioè di uno scontro non umano ma ontologico?

Quale altra squadra ha generato un’attesa stabile in un qualcosa di incerto che però, spessissimo, avveniva, rendendo a quel punto stabile la sua stessa attesa?  Esiste un’altra squadra che ha instillato negli appassionati la spinta centripeta dell’essere più vigili e attenti alla fine delle partite piuttosto che all’inizio? L’incredibile gol di Cavani contro il Lecce all’ultimo respiro di una partita stregata? Il pareggio all’ultimo istante contro il Milan, con i gol di Cigarini e Denis, in casa, in seguito al quale girò voce che a Fuorigrotta fosse stata registrata una sorta di onda tellurica anomala in occasione del pareggio a tempo scaduto?

Anima

Oppure ancora, dopo più di anno di mancate vittorie in trasferta (il segno maximum dell’impotenza di una squadra di qualsivoglia sport), il gol di Maggio all’ultimo minuto sul campo dell’imbattuta e all’epoca assai forte Fiorentina di Prandelli, a sancire l’inizio di un percorso mazzarriano (appena sedutosi sulla panchina del Napoli dopo l’esonero dell’introverso Donadoni) che, in un modo o nell’altro, dura ancora oggi, che di vittorie in trasferta se ne fanno paradossalmente più che in casa?

Eccolo il segno dell’anima mazzarriana, stigma vincente di quegli anni con conseguenze sulle stagioni successive: far crescere il peso specifico del singolo (ripeto da anni agli allievi dei miei laboratori di pratica teatrale che uno più uno, a teatro, non fa mai due ma… più di due se lo spettacolo funziona, meno di due in caso contrario) per fonderlo in una squadra in cui l’assieme valeva assai più della somma della loro tecnica, storia o personalità individuali. Ecco, DeLa sapeva e capiva assai bene quanto Mazzarri stesse facendo (anche ultimamente ne ha rimarcato i suoi meriti).

Limiti che diventano qualità

Ma all’epoca ha opposto una strenua resistenza ai tentativi di Mazzarri di aumentare il tasso tecnico di una squadra letteralmente miracolosa (non mi si dica che non ha voluto Verratti; sarà anche vero ma quanti ne voleva che per cavilli o capricci non sono arrivati, a cominciare da Vidal ben prima che fosse braccato dalle più grandi?) perché non ha avuto voglia (o coraggio?) di metter mano al portafoglio, intaccando i dividendi che da imprenditore-investitore ha dato a sé e al suo cda familiare impedendo a quel miracolo di trasformarsi in una realtà da sliding door potenziale.

Il miracolo di tenere incollato fino all’ultimo secondo chi del calcio ama l’imprevedibilità poetica, senza sapere però che questa era determinata non dalle falle della sua anacronistica difesa a 3 (Conte ci ha vinto i campionati copiando la difesa a 3 mazzarriana) ma semplicemente perché quel Napoli non era in grado di chiuderle prima, le partite, in quanto onestamente e incontrovertibilmente… limitato. Solo col suo gioco pragmatico e nervoso Cavani è diventato quel Cavani (vendendo il quale DeLa ha giustamente preso poi Higuain, Reina, Albiol, Callejon, Mertens, ecc.). 

Solo col suo gioco nervoso e pragmatico il Napoli ha ripreso a vincere in trasferta. Poi ha continuato tanto con Benitez e, tantissimo, con Sarri). Solo col suo gioco pragmatico, nervoso e caparbio poteva arrivare due volte in Champions e vincere una Coppa Italia battendo una Juve imbattuta durante tutto l’anno. Solo col suo gioco caparbio, nervoso, pragmatico e tignoso poteva sfruttare tutti quei limiti e trasformarli in qualità.

Sliding Door

Grava, Aronica e Pazienza sono stati molto evocati al termine di decine di partite molli e prevedibili della squadra di Benitez. Grava, Aronica e Pazienza sono stati tasselli fondamentali di un gruppo umano che, grazie al carattere di chi li guidava, ha creato le indubbie premesse di un’onda che ancora oggi permette al Napoli di surfare molto in alto.

E senza l’abitudine a surfare in alto, non si può puntare ancora più in alto. Grava, Aronica e Pazienza sono stati dei vincenti non per quello che si è materialmente vinto (e qualcosina si è vinto) ma per il gap colmato tra dato di partenza (scarso) e risultato finale (nettamente superiore alle potenzialità). Un po’ come il ‘differenziale’ nel salto in alto, che misura la differenza in centimetri tra l’altezza dell’atleta e la quota che supera: maggiore la differenza, migliore è il risultato anche se magari quell’atleta lì non realizzerà mai il record del mondo.

Quella sliding door non la potremo mai verificare, ma mi sarebbe assai piaciuto vedere il carattere di Mazzarri alle prese con Higuain, Reina, Albiol, Callejon, Mertens, ecc. Quel quarto d’ora finale era il carattere di una squadra che non ha avuto eguali perché se non è da un calcio di rigore che si giudica un giocatore, lo si può certo giudicare dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia ma anche da come rende fatale l’ultimo quarto d’ora.

Ancora mazzarriano, dunque, signore e signori. Io e il Napoli.

Giovanni Meola è autore, drammaturgo, sceneggiatore e regista teatrale e cinematografico
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