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Finito l’Europeo, torno avversario di quasi tutti i giocatori della Nazionale

Finito l’Europeo, torno avversario di quasi tutti i giocatori della Nazionale

Due stupendi libri hanno accompagnato la mia avventura di tifoso Italiano: Il cacciatore celeste di Calasso e Storia dell’eternità di Borges. Il ciclo senza via d’uscita che i due colossi presentano, in contesti e modalità differenti, mi ha fornito uno sguardo speciale sulla nazionale e le sue avventure.

Devo partire dal famigerato e noioso a, b, c, chiedo venia.

Caratteristica superlativa di Homo è l’imitazione, dice Calasso: è esistito un tempo in cui, quando incontravi qualcuno sulla tua strada, non sapevi se quel qualcuno era un uomo o un dio.  Scoprirlo in termini razionali era inutile quanto accertarne l’eventuale umanità o divinità. L’ingarbugliata e misteriosa matassa che ci portiamo dentro ha fatto quello che meglio sapeva fare: ha imitato quello straniero che calpestava la sua stessa terra, e l’ha fatto talmente bene che ne è risultata impossessata, inglobandone anche la colpa, ossia l’uscita dall’ordine delle cose. Il sacrificio nacque per riparare a questa colpa, in tutti i termini possibili. Sacrificio che, in ultima analisi, risultava essere anch’esso ricavato dall’imitazione del divino.

Passiamo a Borges: la straordinaria leggerezza con cui il Signore di Buenos Aires danza sui giochi mistici di platonici, neo platonici e cristiani e sulle capriole letterarie dei primi traduttori delle Mille e una notte, di autori di romanzi indiani, delle peripezie nitzschiane sull’eterno ritorno, sull’arte dell’insulto che si risolve coll’invocazione di un titolo che ricade sul suo possessore, è sublime, è, di fatto, letteratura. Una letteratura che mostra l’eleganza ironica dell’inutilità dell’eternità, la cui idea, dice Borges, non serve ad altro se non che a sbarazzarci del peso di procrastinare il presente, peso ingombrante senza dubbio, in quanto ingiustificabile.

E veniamo a noi: fino a poco tempo fa, vale a dire fino al campionato, ho vissuto con passione le vicende del Napoli, chiedendomi di continuo da cosa dipendesse il mio rapporto folle di tifoso con l’amato Ciuccio. Ho sempre creduto che gli esserini sullo schermo fossero uno sfogo, e le loro vittorie e sconfitte niente più che materiale per parlare, per infervorarsi nel bene e nel male, un divertimento inoffensivo per distrarmi dalla pesante e spesso noiosa realtà. La risposta “è una questione di cuore” non mi ha mai soddisfatto, tanto meno la mia banale idea di distrazione. La mia assurda conclusione è allora che chi sta tifando in realtà celebra, imita uno stato d’essere agonistico che si presenta su un altare di erba e strisce di gesso per vincere o perdere, imita una metafora viva della vita stessa. Dire che il calcio è una religione significa dire una verità molto più profonda di quanto pensassi: lo spettacolo a cui assisto è quello di due gruppi di uomini che si preparano fino allo sfinimento per poi giocarsi tutto in un’ora e mezza, tenuti a non prendere mai sotto gamba quel gioco. C’è una maniera migliore per descrivere quello che ci accade?

Per quanto riguarda la possibilità per un napoletano di tifare per la nazionale posso dire solo questo: a Zeus nessuno ha mai contestato di essere uno stupratore di fanciulle vestito da toro, perché dovrei contestare a Buffon di essere il capitano della Juve?

L’imitazione sacra che metto in atto inconsapevolmente, rende giustizia al mio equilibrio, sacralizza vittorie e sconfitte e il seguente, quanto necessario, spirito di ripresa. Le lacrime di Buffon sono la moderna proposta dei misteri di Eleusi (mi si perdoni  l’esuberanza).

Dalla mente non si esce, è un circolo da cui ci si può solo illudere di staccarsi, imbrogliando. Il mio imbroglio consiste nel fare capriole sulle immagini dei capitomboli dei miei eroi.

In soldoni: scegliere una squadra è, in ultima analisi, cosa arbitraria, come tutte le cose di cuore. Non è arbitraria la scelta di rimanerne posseduti, come tutte le cose della mente. Se devo scegliere tra chi mi suggerisce di avere uno spazio giusto e misurato di distanza dal mondo e chi mi dice di gettarmici dentro con tutta la sua merda, scelgo il secondo, consapevole che questo mi darà anche i mezzi per illudermi, vale a dire per andare avanti senza che io sia alla continua ricerca di giustificazioni sulle mie azioni, ma solo alla ricerca di rivincite e gloria. La gloria di un gioco.

Non c’è niente di poco serio in un gioco, diceva Carmelo Bene, poco serio è lo scherzo. Nelle statue dei greci c’era un’assenza divina, ma presente era il vizio e tutto quello che trascina realmente gli uomini. Le storie e i miti che sostengono ancora oggi quegli sguardi e quei corpi che ho sempre immaginato, non so perché, sudati, appartengono a quelle stupende parole che non terminano mai di stupirmi senza insegnarmi niente, che continuano in un circolo vizioso a sostenere gli uomini e non il mondo.

Finito l’Europeo Italiano, io torno avversario di quasi tutti i giocatori della nazionale; ho il mio dio preferito, come tutti. Ma il mio olimpo è fatto di amici e nemici, di vittorie e sconfitte. Il mio Olimpo è come la mia vita. E la mia vita è una sua imitazione. Non si sfugge.

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