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Allo stadio Saint Denis il “devi vincere” dei napoletani guida il tifo per l’Italia

Allo stadio Saint Denis il “devi vincere” dei napoletani guida il tifo per l’Italia

Saint Denis, Parigi. Terra di santi, terra abbaziale che cela la storia millenaria dei re di Francia che la Rivoluzione ha voluto spazzare via, terra di banlieue, di contestazione, di rivolta, di radicalismo religioso ma anche di solidarietà, di coesione sociale, di lotte sindacali contro la Loi Travail. Qui la terra brucia di contrasti folgoranti e al di sopra di una storia antica, la parabola del calcio europeo si deposita come una nube greve sui destini degli abitanti e degli spettatori, greve di pioggia fitta e leggera come quella che si sta per abbattere sullo Stade de France a pochi minuti dalla partita Italia-Spagna. Già, Italia-Spagna. Il pensiero va subito a Kiev, a quell’Italia che imitava il toque della Roja diretta dal maestro d’orchestra Pirlo e che trovandosi davanti agli incantamenti magici di Don Andrès si riscopri’ improvvisamente disarmata. Ma questo è un altro tempo, un’altra Italia. Un’Italia più operaia, più grintosa, più solidale. Forse all’immagine della città di Saint Denis che i media hanno voluto dipingere come il male assoluto. 

Il vagone della linea 13 stride e si ferma vomitando pochi scampati. La metro è stracolma. Più magliette dell’Italia che della Spagna. Penso a coloro che sono venuti per la partita ma anche a coloro che qui ci vivono da anni o da generazioni e sfoggiano fieramente la maglietta dell’Italia parlando un italiano claudicante accentando maldestramente tutte le ultime sillabe. La Squadrà, le calcio’, Bonucci’, De Rossi’. Li guardo. Hanno cognomi italiani che ricordano lunghi peregrinamenti durante l’abominio del ventennio, hanno cognomi e facce che ricordano la fame atavica dei ritals che giugevano qui tra le due guerre in cerca di pane e lavoro. M’infilo nel vagone pieno. Una voce mi apostrofa subito. “Nun o facite trasi’, ca stamm già schiattann”! E tutti giù a ridere. Sorrido. Il vagone è pieno di napoletani. Alcuni hanno anche la maglia del Napoli. Vedo le chiazze rosse dello sponsor Lete, a’ chiazz e’ pummarola, un po’ ovunque. Rispondo: “Trase ’e sicc e me mett ’e chiatt”. La mia risposta in napoletano crea una mini-ovazione nel vagone. E tutti a chiedere se vivo qui, lavoro qui. Io racconto. In fondo anch’io sono un migrante, anch’io ho lasciato la mia città, Napoli, per cercare lavoro qui. Non sono poi cosi’ diverso da quelli che fuggivano la fame nei villaggi italiani tra le due guerre. I ragazzi mi guardano con ammirazione. “’A fatica” sospira uno che si chiama Carmine. C’è una sorta di rassegnazione atavica, in quell’espressione, in quella voce. Il lavoro che aliena, diceva Marx, ma il lavoro che non c’è forse aliena anche di più. 

L’uscita dalla metro apre uno squarcio mirabile sulla fiumana umana che si dirige verso un catino circondato da una sorta di anello saturnino. Così mi appare lo Stade de France, mentre una luce rossastra squarcia le nuvoli grevi che minacciano di scaricare pioggia sullo stadio. Attorno a me vedo magliette dell’Italia ovunque e mi meraviglio di sentire quelle stesse persone indossare la maglia dell’Italia parlare francese, portoghese, addirittura tedesco. Chi sono i tifosi dell’Italia? Sembrano i tifosi di un’idea, di un’utopia sociale. I controlli sono serrati. Le ferite degli attentati del Bataclan e dello Stade de France sono ancora vivi nella memoria. Poliziotti antisommossa, esercito, cani, soldati armati di tutto punto. È solo una partita, mi dico. Vedere l’Italia qui comunque, per chi ci vive, è un’esperienza unica. Finalmente giungo all’interno dello stadio, giusto in tempo per sentire gli inni. A quello spagnolo qualcuno prova a fischiare ma subito viene zittito. Ho una strana sensazione. Come napoletano ho un legame forte con la Spagna. Parte del mio dialetto, parte della mia storia, la via Toledo, i quartieri spagnoli, parte di quelle possenti mura dei castelli che fortificano la città dal mare e sulle colline li hanno costruiti gli avi di quelli in maglia bianca. Poi pero’ mi vengono in mente le vessazioni, la Napoli colonia spagnola e la rivolta di Masaniello. Arriva subito o’ viceré, chistu pesce spett a’ mme. Mentro sono assorto in questi pensieri parte l’inno italiano. Si canta a squarciagola. Inizia la partita e l’Italia sembra subito pimpante, energica, affamata. Mi rendo immediatamente conto che a parte “Italia, Italia” ed il classico coro “Popopopo” ci sono lunghi minuti di silenzio ad accompagnare le azioni. L’Italia operaia, quella che si dispiega a Saint Denis, merita più cori forse. Mi dico: “Anche per questo amo il Napoli. Il Napoli ha tanti cori, a seconda dei momenti della battaglia, a seconda degli stati d’animo dei calciatori, della squadra, della partita, della difficoltà della sfida. L’Italia, non ne ha”. Vedo, non lontano da me, un gruppo di ragazzi che indossa la maglietta del Napoli. Mi dico che se lancio un coro del Napoli nessuno se ne accorge, anzi mi segue. Del resto, se intoni “Forza azzurri alé alé” nessuno puo’ obbiettare nulla. È un coro che si può applicare al Napoli come all’Italia. Gioco sull’equivoco e lancio. 

Intanto Pellé, che ha già impegnato severamente De Gea, si fa fare un fallo ai 22 metri. Eder parte, tiro forte, respinge De Gea, si avventano Giaccherini e Chiellini che segna. Un boato nella curva e partono i cori. La gente si riscalda, l’Italia riscalda perché soffre e riparte con folate arrembanti. Ma gli interventi arbitrali piacciono sempre di meno. Innervosito, perché quando guardi una partita in curva tutto sembra smisuratamente sbagliato, lancio qualche improperio in napoletano. Ho sempre pensato che se devi insultare qualcuno farlo in francese o in italiano non rende. La iastemma in napoletano è tutta un’altra cosa. Sull’arbitro turco iniziano a piovere insulti, malgrado i facili richiami al turco-napoletano e alla mia passione, divenuto oramai ricordo, per Inler. Il suo fiscalismo mi sembra eccessivo. “Lota, curnut, mappina!” Molti mi guardano e ridono. Ci sono altoatesini, torinesi, toscani, francesi. Ma i più rumorosi, i più vivi, sono sempre i napoletani. Il gruppo che sta giù lancia cori a più non posso, la telecamera li ha ripresi più volte, oramai sono in mondovisione. Il cuore d’Italia è Napoli. Quella Napoli cha ha il sangue sulfureo, che ribolle, che fa sentire il suo calore anche al resto d’Italia. Che se l’amasse, che se amasse quella regina del Sud sarebbe un paese forte, unico e non diviso.

L’Italia non ha chiuso la partita. De Gea sta facendo paratoni a destra e a manca. La difesa dell’Italia tiene ma per quanto? Entra Insigne. Boato. Dietro di me, partono pacche sulle spalle. Mi sento rappresentato. È la tua Napoli, mi dico, c’è Insigne. Ho un moto di gioia nel vederlo. Quel ragazzetto piccirillo che trotterella e che saltella prima di entrare in campo è proprio un figlio della mia terra. Il piccolo genio, lo scugnizzo di Frattamaggiore (dove nei negozi ci sono le sue gigantografie). Lorenzo subito prende palla, scarta e tira. Si vede che ha qualcosa dentro, qualcosa che ribolle, è un vesuviano. Ma l’Italia soffre, Buffon vola a respingere gli assalti iberici e all’88esimo c’è aria di beffa. Si sa, quest’europeo inizia dopo l’85esimo. L’Italia arretra troppo. Si soffre, si soffre. Partono i cori che nessuno puo’ obbiettare. “Undici leoni”. “Alé devi vincere, devi vincere”. “Noi vogliamo questa vittoria” e gli applausi ritmati. Oramai la curva dello stadio di Saint Denis sembra la curva B. La gente canta cori del Napoli senza saperlo. Altoatesini, piemontesi, milanesi, francesi, tedeschi, tutti. Tutti cori del Napoli riadattati per l’Italia. È come se Napoli prestasse un po’ del suo orgoglio, della sua smanceria, della sua spavalderia al resto d’Italia. Improvvisamente succede qualcosa d’inspiegabile. Da sopra gli spalti vedo una strana luce ed un uomo in tonaca bianca. Che ci fa? Sembra assolutamente fuori luogo. Non ha infatti nulla a che vedere con il resto del contesto. Sembra uscire fuori dal deserto che attornia il Mar Morto, da un film di Zeffirelli, da una commedia dei Monthy Python. Un ragazzo magro, emaciato, in tonaca e con addirittura una corona di spine che gli cinge il capo scende le scalinate. Corro verso di lui inebetito urlando “Gesù, Gesù!” e pensando: “Ma che ci fa uno vestito da Gesù in uno stadio?” Dietro di me la cricca dei napoletani dissacra il momento di estasi mistica. “Gesù miettece a’ mano toja!” grida uno. Oppure “Gesù tu si o’ figlio d’o mast, fischia la fine”. Un altro ridendo gli dice: “Ua frat pare Schwoch”. Un altro ragazzo, smilzo, lo tira e gli dice: “Gesù ma pe l’Inghilterra o pozz jucà l’over?” Gesù ride, viene tra noi, ci abbraccia, si lascia fotografare, canta con noi. Non parla aramaico ma ha uno strano accento del Nord. “Voi napoletani siete grandi”, dice. Bastano quelle poche parole per condensare lo spirito di quella giornata, di quella partita, di quei cori. Mentre la sera scende lentamente su di noi Pellé segna un gol dei suoi, bellissimo. Il miracolo si è prodotto ed il calvario è finito. L’Italia ha vinto. Noi ce ne andiamo, in cammino, verso la notte, i nostri cuori perduti nell’azzurro.
@marco_cesario

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