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Tifare per il Napoli a Torino: nascita di una passione

Raccontare le passioni, ancor di più se sono le proprie, non è facile. Si rischia sempre di non trovare le parole giuste: quelle di significato, quelle con la giusta musicalità, quelle vere. La passione in questione è, capirete bene, colorata di azzurro, scolpita dentro, indelebile. Ma non è un passione (e chiedo scusa in anticipo se ho usato questo sostantivo già tre volte in poche righe, ma mi e vi domando: conoscete un sinonimo all’altezza?) nata per caso, magari frutto di influenze infantili o di convincimenti passeggeri del tipo: “Una volta ho visto in tv un gol del tal quale e da lì ho cominciato a tifare quella tal squadra ”.

No, no, la genesi del mio amore per i colori azzurri ha radici profonde ed ha un inizio preciso, scolpito: 25 aprile 1984. Quel giorno mio padre, napoletano di Napoli, ebbe la gioia di veder nascere il suo primo figlio lo chiamò esattamente come il fratello minore (un tifoso sfegatato) e decretò una cosa soltanto: “Tiferà per il Napoli – disse se non con queste parole ma quasi – come me, come mio fratello, come mio padre, come tutta la mia famiglia”. Era il suo modo – lui immigrato trasferitosi in una Torino degli anni ’80 avvolta nella nebbia della Fiat in piena crisi – di non perdere le radici, di tenersele strette e salde. Per tramandarle. Sapeva bene, mio padre, che il calcio avrebbe rappresentato un veicolo di trasmissione immediato, facile. E poco gli importava che attorno a me, quando sarei poi cresciuto, in pochi avrebbero capito un torinese tifoso del Napoli. Aveva fiducia nel fatto che la passione avrebbe superato ogni paura del pregiudizio.

E così è stato, anche se, lo ammetto, ai tempi delle elementari fingevo di essere tifoso del Torino e del Napoli. Tant’è che per lungo tempo anche i miei parenti napoletani hanno avuto il dubbio. L’unico che sapeva la verità era mio padre perché mi vedeva la domenica esultare ascoltando la radio per un gol di Paolo Di Canio contro il Milan (vincemmo uno a zero se non sbaglio) o per una punizione di André Cruz, il mio difensore preferito o ancora per una parata di un monumento come Pino Tagliatela. Mi vedeva incollato davanti 90 esimo minuto a vedere rivedere gol e azioni salienti.

Era la fine degli anni ‘90, sono quelli i miei primi ricordi veri, quelli in cui il Napoli era squadra affaticata, indebitata, ancora vittima dell’abbandono di Diego. Diego appunto, capitolo a parte: io ero troppo piccolo, ho pochi e vaghi ricordi di quel periodo se non mio nonno (abbonato per anni) che mi raccontava di un San Paolo talmente pieno da far tremare i palazzi intorno. Ho visto e rivisto le immagini dei due scudetti, della gioia, del che “vi siete persi” scritto nel cimitero di Napoli, di una città impazzita, di una festa infinita, della prima pagina de Il Mattino (ho ancora la maglietta con la stampa).

Nonostante i miei ricordi siano legati a un altro Napoli: quello dei debiti, delle sconfitte brucianti, della serie B prima e della serie C1, dei Ferlaino e dei Corbelli, della polvere e della rinascita con il Cittadella. Nonostante attorno a me i miei più cari amici vincessero scudetti e coppe campioni con le loro squadre del cuore, io sapevo di non avere alternative. Avrei dovuto accettare la mia condizione nell’attesa, forse chissà, di un riscatto.

Ora che anche io ho vinto una Coppa Italia e che sono arrivato agli ottavi di Champions League, ora che ho lottato alla pari con Juventus, Milan e Inter, ora che due terzi di quelli che indossano la maglia azzurra sono titolari nella loro nazionale. Ora che siamo una squadra da battere, ora solo ora capisco perché mio padre ha fatto di tutto per tramandarmi la sua passione. Perché quello stadio, quella gente, quella carica, quelle urla, quel trasporto non hanno eguali. Perché rappresentano il concretizzarsi di un sentimento tanto semplice quanto unico: amore. Eterno. Forza Napoli, grazie Papà.
Andrea Punzo

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