Repubblica intervista Alessandro Michele, che ha curato il look del cantante a Sanremo: «Sapevo che sarebbe stato come piazzare una bomba, metaforica, sul palco dell’Ariston. E mi sono divertito moltissimo»

Repubblica intervista Alessandro Michele. E’ il direttore creativo di Gucci ma anche e soprattutto colui che ha curato il look di Achille Lauro nella settimana del Festival di Sanremo. Un look che ha fatto discutere parecchio. Il cantante ha impersonato, nel corso delle serate, San Francesco, la Marchesa Casati, lo Ziggy Stardust di David Bowie e Elisabetta I.
Molti hanno accusato Lauro di aver dato più risalto alle performance che alla musica. Michele è irremovibile, sul punto. Dice:
«Si può separare la musica di Elton John dai suoi costumi? E quella di David Bowie, si può staccare dai suoi personaggi? E Renato Zero? Dividere il personaggio, la sua rappresentazione e la teatralità che ne deriva dalla voce è difficile. Sono operazioni “chirurgiche” che non mi piacciono, e che per me sono pure sbagliate: la messa in scena è vitale per la musica, senza la performance avremmo solo degli splendidi coristi».
Per lui, vestire Lauro, è stata un’esperienza dirompente.
«Lo ammetto, ogni sera ero trepidante davanti alla tv in attesa di vedere cosa sarebbe accaduto. Non ho lavorato avendo Sanremo in mente, certo però sapevo che sarebbe stato come piazzare una bomba, metaforica, sul palco dell’Ariston. E mi sono divertito moltissimo».
Con quelle mise, è come se il cantante fosse andato a protestare in Parlamento. E per questo è da considerare il vincitore morale del Festival.
«Presentandosi lì Lauro è come se fosse sceso in piazza a protestare, solo che invece di farlo sotto casa sua è andato dritto in Parlamento. E il suo caso non è certo nemmeno il primo in questo senso: penso ad Anna Oxa vestita da uomo, o a Loredana Bertè con la pancia finta. Sono quegli episodi di rottura a essere passati alla storia, e per questo Lauro moralmente ha vinto».
Lo stilista si esprime anche sul concetto di valletta, e sul più ampio concetto delle donne e degli stereotipi su di loro.
«È la figura della valletta in sé che mi lascia perplesso: non perché non ci debbano essere, ognuno è libero di fare ciò che vuole, ci mancherebbe, ma mi piacerebbe che le donne fossero al centro del palco per ciò che sono, non per l’essere mogli o compagne di, o in nome dei like ricevuti su Instagram. Forse ci si dovrebbe fare un esame di coscienza sul perché ancora accada, e sul perché ci siano ancora certi stereotipi».
Il sogno di vestire i musicisti, racconta, viene da lontano.
«Io sono quello che sono per la musica: guardavo ai musicisti sul palco e nella vita di tutti i giorni, e sognavo di vestirli. I miei idoli non erano Armani e gli stilisti, perché per la mia generazione quello era un mondo chiuso, destinato solo a una certa classe sociale. Perciò volevo fare il costumista, solo più tardi ho capito che mi sarebbe piaciuto fare abiti per tutti, non solo chi suona. E poi la musica è emotiva, e io vivo i miei vestiti in maniera emotiva: è naturale che i due mondi per me siano così connessi».