Chiamare Del Mare un ospedale costruito a Ponticelli è un crimine contro l’umanità partenopea

È tutto troppo bianco e ordinato qui, non è giusto. La sofferenza deve pippiare nel grigio consunto della parete scrostata

Ospedale del mare

Il mare non bagna Ponticelli

Ho voglia di un caffè.
A Napoli la periferia è atroce, credo sia colpa della bellezza accecante di buona parte della città che amplifica la mostruosità delle sue estreme propaggini, un po’ come capita quando vedi passare una coppia con una lei da urlo e un lui da tenue bisbiglio.
La sproporzione acuisce il senso del disgusto.
Chiamare Del Mare un ospedale costruito a Ponticelli è un crimine contro l’umanità partenopea. Per noi il mare è sacro, si associa allo spaghetto con le vongole, al tuffo a cufaniello, al due pezzi della signora Maria che continua a non aver timore della gravità.
Se sei coraggioso e idealista, l’ospedale Del Mare lo piazzi a Trentaremi, alla Gaiola, a Nisida. Prima una bella sniffata di iodio e poi sotto con la Toradol.
Altrimenti vai sul classico e lo intitoli a qualche Santo, la pratica dell’intercessione è sempre affascinante, molto meglio dell’estrema unzione.
Il bar dell’ospedale è chiuso. Peccato, il caffè non era male. Esco e ritrovo agosto, dentro è novembre fisso. Anzi, di notte quasi gennaio inoltrato.
Fuori è il deserto, due parcheggiatori abusivi in canottiera sembrano l’unico nesso plausibile con il mare nostro. La strada scorre ampia, lentissima, come il tempo da quando siamo qui. La sera dell’incidente invece non riuscivo a stragli dietro.
Che è successo? Dove? Come sta? Mo’ arrivo.
Il cuore in gola.
Resta lucido.
Il tempo è uno strummolo, gira vorticosamente sulla sua punta metallica. E io assieme a lui.
Dall’altra parte della strada c’è un palazzo lunghissimo, una enorme barriera fisica, un monolite diroccato più che un edificio residenziale. Gli urbanisti degli anni ’70 dovrebbero marcire nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno di Dante, quello destinato ai maghi e agli indovini, costretti a camminare con il volto distorto all’indietro, in antitesi con la loro pretesa di vedere avanti nel futuro.
Nessun negozio. L’insegna di una farmacia, quella di un fruttivendolo e di una rosticceria. Il luogo ideale per vegani confusi in cerca di ansiolitici a buon mercato.
C’è pure un cartello con la scritta BAR ma la freccia punta verso terra e io non ho un piccone per verificare la sua buona fede.
Rientro, l’aria condizionata mi avvolge ed è di nuovo il tempo dell’attesa, una bolla che fatico a trascorrere.
Oggi, domani, chissà.
Non dipende da me.
Una tortura.
Un’anziana signora urla invano in nome del figlio per tutta la notte. Non l’avrà desiderato tanto nemmeno il giorno che l’ha partorito.
Peppe, Peppe, vienimi a prendere. Peppe…
L’infermiera dice che non ci sta con la testa. Ma con il cuore è ancora viva, ed è la cosa peggiore.
E’ tutto troppo bianco e ordinato qui, non è giusto. La sofferenza deve pippiare nel grigio consunto della parete scrostata, al fuoco lento del linoleum color amianto, per poter espellere tutti i succhi dell’amarezza e assurgere a lieto evento, trasformandosi nella tanto agognata dimissione/guarigione.
Di notte sembra la Base lunare Alpha, il Comandante Koenig e la Dottoressa Russell sono in ferie e tutti ne approfittano per parlare di Palinuro, TikTok e dell’infortunio di Lukaku.
Alla prima del Napoli quest’anno ci dovevamo essere anche noi, invece, come Romelu, saremo assenti giustificati.
Le sei del mattino, i neon si assopiscono, mi alzo dalla sedia con la schiena croccante e le gambe gelide.
Siamo stati fortunati, si, lo siamo stati.
Magari oggi si opera, e poi si torna a casa.
La speranza è una terrazza con vista sui faraglioni.
Ho di nuovo voglia di un caffè.
Ma non mi muovo, aspetto che arrivi una buona notizia.

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