Il libro è la risposta alla caduta di stile del film scudetto. Magari gli attori del calcio fossero sinceri nel presente. Dopo, bisognerebbe saper stare al mondo

Spalletti e una vita fondata sul rancore. Che sia De Laurentiis o Ilary
Cosa può spingere un uomo appagato (o che comunque tale dovrebbe essere), che ricopre il ruolo più prestigioso per un allenatore italiano, a scrivere un libro per togliersi un po’ di pietre dalle scarpe? La nostra risposta è: il rancore. Quel ronzio, quell’acufene della bile, che evidentemente lavora incessantemente. Giorno e notte. Notte e giorno. Il rancore e, va da sé, la visione della vita egoriferita.
Non è che ci aspettassimo altro dal libro di Luciano Spalletti di cui avevamo già compreso la direzione quando rivelò che il capitolo dedicato a De Laurentiis sarebbe stato intitolato “Il sultano e il contadino”. Lui in privato definiva sempre De Laurentiis il sultano.
Oggi Il Corriere della Sera ha pubblicato un ampio stralcio del libro e però ha rivelato che il capitolo si intitola “Le verità nascoste”. Non ci interessa tanto entrare nel merito. Spalletti ha le sue ragioni. Era evidente anche a un bambino di tre anni che tra i due fosse calato il gelo. Due feste in contemporanea per lo scudetto non si erano mai viste. Fu una scena ridicola. Come grottesco e fuori luogo fu dedicare un quarto del film scudetto all’eliminazione del Napoli in Champions ad opera del Milan. Rancore cinematografico. Caduta di stile. Incapacità di saper stare al mondo. Fate voi.
Fatto sta che due anni dopo, Spalletti ha risposto con la stessa moneta. Per certi versi è persino più triste visto il tempo che è trascorso ma è arduo scegliere a chi spetti la maglia rosa del più deprimente.
Quel che però ci sentiamo di dire, anzi di ripetere, è che sarà sempre troppo tardi quando i protagonisti del calcio la smetteranno di propinare tonnellate di frasi ipocrite. Veramente Spalletti pensava che qualcuno credesse alla sua volontà di ritirarsi a fare il contadino? Chi scrive non ha mai pensato che fosse già tutto architettato con la Figc e con Gravina. Ma ora, francamente, qualche dubbio sorge. È così bello parlar chiaro. Potrebbe anche rendere meno creduloni, e quindi meno di intralcio, i tantissimi boccaloni che vanno sotto il nome di tifosi.
I due non si sopportavano più. Spalletti aveva le sue ragioni (almeno, possiamo dire, De Laurentiis a gennaio non gli vendette Kvaratskhelia o Osimhen). Ma va anche ricordato e sottolineato trenta volte che – lui come tanti altri – deve molto a De Laurentiis. È entrato nella storia del calcio (lui che fin lì era considerato un perdente, la Russia non conta) grazie alle sue indubbie capacità ma anche grazie al presidente del Napoli. Ciascuno ha fatto bene all’altro. Non bisogna volersi bene né fraternizzare. Napoli due anni fa confermò che si vince con l’acrimonia, con l’antipatia, non con i rapporti mielosi che fanno più danni dell’invasione delle cavallette.
Nel ricordare che uno come Ancelotti (esonerato e trattato come sappiamo), non ha mai detto nulla di De Laurentiis, vogliamo aggiungere due cose. Una è che poi Spalletti si liberò del contratto (anzi, fu liberato dal contratto) ed è finito a fare l’allenatore della Nazionale. Due è che abbiamo letto anche parte del capitolo relativo al suo finale con Totti. E pure lì il commissario tecnico non ha resistito al richiamo del rancore, quando ha definito Ilary “piccola donna” mostrando di non aver dimenticato quando l’allora moglie di Totti in una improvvida intervista definì il signor Luciano “piccolo uomo”. Potremmo qui ricordare – e lo facciamo – quando dopo il 5-1 inflitto alla Juventus corse in maniera plateale (“viscida e falsa la postura, scrisse Damascelli) per dare la mano a Massimiliano Allegri da lui finalmente battuto. O, ancora, quando andò da ct andò in tv a Sky a tenere lezioni di football e a dire che il calcio non è semplice. Altre ne avremmo, ma ci fermiamo qui. Dev’essere dura la vita con quel ronzio sempre nell’orecchio.