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Mentana: «Noi italiani siamo placidamente razzisti. Abbiamo quasi ripristinato la schiavitù»

Al CorSera: «Se ordino una pizza non viene mai un italiano a consegnarmela. Ci dividiamo tra razzisti buoni che lasciano la mancia e cattivi che ringhiano: torna a casa tua».

Mentana: «Noi italiani siamo placidamente razzisti. Abbiamo quasi ripristinato la schiavitù»
An Milano - IX edizione del premio giornalismo per il sociale / foto Andrea Ninni/Image nella foto: Enrico Mentana

Il Corriere della Sera intervista Enrico Mentana. Parla della sua famiglia. A partire dal padre.

«Mio padre era comunista. Mio nonno Enrico era un figlio illegittimo, nato in Calabria nell’anno della battaglia di Mentana, cui dovette il suo cognome. Conservo la copia anastatica del registro di Ellis Island del 1905, in cui gli Stati Uniti d’America respingono la richiesta di ingresso di Enrico Mentana».

E poi dicono che i razzisti siamo noi italiani. Mentana:

«Noi italiani siamo placidamente razzisti. Abbiamo quasi ripristinato la schiavitù: se ordino una pizza o una lavatrice non viene mai un italiano a consegnarmela».

Luca Ricolfi l’ha definita la «società signorile di massa». Mentana:

«Ci dividiamo tra razzisti buoni che lasciano la mancia e razzisti cattivi che ringhiano: torna a casa tua».

Racconta la storia della famiglia di sua madre.

«Mio nonno materno, Ettore Cingoli, ebreo marchigiano, conobbe a Torino la sua futura moglie Ada, ebrea genovese. Mia mamma Lella era del1930, come Liliana Segre: solo un mese fa ho scoperto che venne espulsa lo stesso giorno dalla stessa scuola di Milano. Fu più fortunata: quando arrivarono i nazisti, i suoi la portarono a
nascondersi sui monti delle Marche. L’8 settembre mio padre aveva vent’anni: si unì alla Resistenza, evitò per un soffio il plotone d’esecuzione anche se non se ne vantava mai, e dopo il 25 aprile andò a lavorare all’Unità, in cronaca. Il suo capo era Giorgio Cingoli, comandante partigiano e cugino di mia mamma. Fu lui a farli incontrare».

Mentana, invece, era anarchico.

«Io ero anarchico. Diverso dagli anarco-insurrezionalisti di oggi. Con due compagni di scuola, Michele Serra, il bravissimo giornalista, e Guido Salvini, il magistrato che ha ottenuto una sentenza definitiva su Piazza Fontana, militavo in un piccolo gruppo che si chiamava Movimento socialista libertario. A Milano eravamo minoranza:
il movimento studentesco era stalinista, e Stalin gli anarchici li faceva fucilare. Ma era anche la Milano di Pinelli e Valpreda. Avevamo una passione perla sinistra antiautoritaria, un’utopia romantica sconfitta dalla storia».

Racconta quando cominciò, per lui, il giornalismo.

«Subito. Mi chiudevo nello sgabuzzino con un piccolo televisore per fare le telecronache. Era la modernità, era il futuro. Fossi bambino oggi farei lo youtuber o il tiktoker. Per me era una pazzia divorante. Ogni volta che conoscevo un giornalista mi emozionavo».

Gli chiedono se crede in Dio. Mentana:

«Sì. Anche se non potrei mai scegliere tra il Dio di mio padre e il Dio di mia madre. Non ci può essere un Dio giusto e un Dio sbagliato».

Come immagina l’Aldilà?

«Come Massimo Ammaniti: il Paradiso è là dove ritroverò i miei cani. E tutte le creature cui ho voluto bene. A cominciare dalle due che mi hanno messo al mondo».

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