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I “frà” d’Italia D’Alessio e Clementino disinnescano i fischi napoletani all’inno

Al Maradona come a Teano. In città il rapporto con Mameli è controverso ma Gigi con la sua marcetta post-neomelodica ha riunito il Paese

I “frà” d’Italia D’Alessio e Clementino disinnescano i fischi napoletani all’inno

A Napoli il rapporto con l’inno di Mameli è controverso. Nella finale di Coppa Italia di qualche anno fa a Roma, i tifosi del Napoli lo fischiarono. Per quella irrimediabile (forse) tendenza ad una orgogliosa apartheid vetero-borbonica: non siamo italiani, siamo napoletani. Poi, per controsenso-capolavoro, quando le tifoserie altrui ribadiscono a gran voce – weekend dopo weekend – “noi non siamo napoletani” ci offendiamo (esprimiamo in fondo lo stesso concetto, ma l’autorivendicazione è una cosa, il rinfaccio è un’altra). Una sera di marzo è arrivato l’inno di Gigi D’Alessio e Clementino prima di Italia-Inghilterra. E la storia è cambiata. Mameli fatt’ a llà. Il “caloroso” pubblico napoletano, non potendo fischiare un monumento locale, ha deviato i fischi sull’inno inglese.

Gli inglesi, a loro volta, non hanno preso benissimo l’esibizione di Ellynora. Le hanno contestato sui social la tonalità e l’intonazione. La poveretta s’è pure confusa e “God Save The King” all’inizio è partita con la Queen ancora viva e vegeta. Poi s’è corretta ma ormai la frittata era fatta. In ogni caso: ognuno ha i guai suoi.

Per tornare ai nostri: i napoletani intanto fischiavano, e fischiavano. Il commento della Rai era rispettosamente impegnato a dribblare la polemica, non raccontando il disgusto e l’inciviltà del pur sempre “caloroso” stadio Maradona. E’ la strategia della bonifica: la televisione di Stato deve “vendere” ogni suo evento depurato, confortevole, coccoloso. Invasione di campo? Virano le telecamere sulla bonazza sugli spalti (ce ne sono a iosa, e ogni bravo regista sa che posti hanno assegnati). Cori razzisti? Una breve pausa pubblicitaria. Nel caso di specie: glissare a passare oltre. Che c’è da lanciare l’inno nazionale nostro, affidato “per compiacenti ragioni territoriali e non certo artistiche” (scrive La Stampa) a Clementino e Gigi D’Alessio. Trattasi di marketing geolocalizzato: una volta c’era Pavarotti, ora promuoviamo le eccellenze campane. Il territorio. Sempre, tutto, così.

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L’esibizione è ipnotica, tanto che l’Italia di Mancini ci metterà un tempo intero per riprendere coscienza. Clementino presenta se stesso e D’Alessio in modalità rap ammorbidito. Urla anche “yeah!”, “Ci siamo!” e “uuuuu”. L’altro sorride sornione, infila una mano in tasca con consumata nonchalance e attacca. Ci manca poco che i Fratelli d’Italia si traducano in “frà”, o peggio “brò”. Non c’è il vibrato da matrimonio, però il remix tarantellato è un pezzo d’antiquariato futurista. La base – apprendiamo – è una canzone di Gianni Celeste, ma ad orecchio è rintracciabile quasi un mash up con la sigla di Daltanius.

La marcetta prosegue incipiente, a passo quasi marziale. Jorginho prova con tutte le sue forze ad imporsi un’espressione sofferta da vero patriota, mentre gli azzurri si stringono a coorte e la gente, “calorosissima”, canta a squarciagola come al concerto del suddetto D’Alessio al fu San Paolo, anno 2003. Da “fotomodelle un po’ povere” all’elmo di Scipio è un attimo. Che dio ci salvi (a noi e al re), evitano almeno il poropo’ porompompompo’ di prassi.

E’ un momento altissimo, di cui i critici ancora non hanno piena percezione. Siamo dalle parti dell’inno americano cantato rallentato e solenne da Whitney Houston al Super Bowl del 1991. O – fate voi – dell’esibizione di Enrico Pallazzo in “Una pallottola spuntata” (cit. Giuseppe Pastore).

Però il miracolo è fatto: i fischi napoletani all’Italia sono disinnescati. Non si può fischiare un napoletano. Ci stanno gli inglesi, a portata di mano: fischiamo loro! Clementino e D’Alessio sono i nuovi Garibaldi e Vittorio Emanuele II. Al Maradona come a Teano. Altro che il povero Mameli, l’inno di Gigi ha unito per qualche minuto l’Italia. Una rivoluzione post-neomelodica.

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