La recensione del libro di Daniele Manusia, direttore de L’Ultimo Uomo: storia e storie di un calciatore «pazzo», ma amato come pochi altri.
Eric Cantona è uno dei rari esempi in cui la qualifica di rivoluzionario, ovvero «caratterizzato da profonde trasformazioni rinnovatrici, apportatore di radicali rinnovamenti» secondo la definizione del dizionario, non rischia di apparire eccessiva. Troppo spesso, nel celebrarne le gesta, si è commesso l’errore di ricordare l’ex giocatore del Manchester United principalmente per aver colpito il 25 gennaio 1995 con un calcio Mattewh Simmons, tifoso del Crystal Palace; in realtà Eric Cantona è stato molto altro, come dimostra la biografia da Daniele Manusia “Cantona. Come è diventato leggenda” [Add Editore, 14 euro].
Quello del diretto de “L’Ultimo Uomo” è un testo molto documentato, frutto di accurate ricerche tra le svariate interviste rilasciate da Cantona e la decina di libri, qualcuno autobiografico, pubblicati sul francese.
Nel sangue di King Eric scorre sangue per metà sardo – «il cognome originale sembrerebbe che fosse Concini, storpiato come in tutte le storie di emigranti dai burocrati del paese d’arrivo» – e per metà catalano – il nonno materno ha combattuto contro la dittatura di Francisco Franco – ma i genitori di Eric, Albert ed Eleonore, decidono di trasferirsi nella parte nord di Marsiglia. Alla domanda se abbia influenzato la cultura italiana o lo spirito catalano, Eric risponde «Nessuna delle due. Sono figlio di Cantona e di nessun altro […] Marchio registrato». S’intuisce la fierezza per le sue origini, per l’educazione fondata sul lavoro,sulla volontà e sulla solidarietà, oltre che un grande attenzione all’arte ed alla pittura, il padre infatti insegna ai tre figli a dipingere e li porta in giro per musei. C’è ovviamente anche il calcio, al Vélodrome per assistere alle partite, Eric «s’innamora dell’Ajax di Cruyff, il tipo di calciatore che sognerà di diventare che in tutte le interviste future citerà come unico modello».
Ciò che rende gustoso il testo di Manusia non è il tanto racconto del Cantona giocatore – di cui si sa quasi tutto, così come si conosce ogni frammento ed ogni dettaglio di quei gran brutti gesti, così li definisce l’autore, che hanno consegnato alla storia il francese – ma l’attenzione per gli aspetti meno indagati dell’uomo, dai più definito “pazzo”. Questo è un tema, grazie anche al padre infermiere in un ospedale psichiatrico, su cui Cantona è molto sensibile, per questo motivo si chiederà provocatoriamente «Dov’è il confine ? Chi lo traccia ? Chi dice che quella persona è pazza e perché è pazza […] A me spaventa per me stesso. Personalmente ho l’impressione di poterci cadere, e non so fino a che punto posso spingermi».
Cantona ha sempre rifiutato le etichette affibbiate con una certa disinvoltura dalla stampa – vizio duro a morire – e con cui venivano identificate le sue “gesta”, si parlava di “Cantonade” o, nei casi più gravi, di “Affaire Cantò” ed è la stessa superficialità e pigrizia intellettuale con cui in Italia, per anni, si è parlato di “Cassante” o “Balotellate”. Quello che è stato eletto giocatore del secolo per i tifosi dei Red Devils [superando campioni del calibro di Best e Charlton] conosce bene questi meccanismi ed è forse uno dei pochi, con Mourinho, in grado di uscire vincente da un duello con la stampa attraverso frasi che resteranno scolpite nella memoria. Come dopo la seconda udienza per il calcio a Simmons, si limitò a dire ai giornalisti: «Quando i gabbiani seguono il peschereccio, è perché pensano che verranno gettate in mare delle sardine. Grazie molte».
A Cantò – così come chiarito in un’intervista ad Emauela Laudisio su La Repubblica – «non interessa essere un pagliaccio in mani altrui. Farmi dire cosa è bene e cosa è cattivo. Non accetto morali, né finire catalogato […] Non c’è un Cantona cattivo e uno buono. C’è un Cantona che ha attraversato la vita, che ha fatto esperienza e che non vuole essere ridotto a un francobollo».
King Eric, «protetto dalle sue eccentricità», ha avuto sempre il pregio di dire le cose con schiettezza, agendo d’istinto e senza particolari calcoli, come quando nel settembre 1987 intervistato da France Football parla di un mondo del calcio dove si vedono «ragazzi pettinati bene, che stanno attenti alle parole» – lui non ne è capace – «i calciatori sono banali. Sono dei robot che giocano, non gli è concesso parlare». In quella stessa intervista si comprendono i motivi per cui Cantona si è ritirato a 31 anni – lo considererà poi un errore – non gli sono mai interessati particolarmente i soldi, li ha guadagnati per i suoi figli ed ha sempre ritenuto «il calcio un’arte minore», lui era affascinato dalle arti maggiori, come la pittura: «Tutti sanno che dipingo. Ma ho alte passione. Voglio vivere con la pazzia dell’artista. Quello che m’interessa è il suo dolore. Perché il grande artista è sempre incompreso».
Cantona si è cimentato, dopo aver appeso gli scarpini al chiodo e vinto un mondiale di beach soccer – con alterne fortune nella carriera d’artista prima come pittore poi poeta ed infine attore e regista, con qualche iniziativa da agit-prop – ad esempio quando propose di ritirare i risparmi dalle banche francesi o annunciò di candidarsi all’Eliseo. Tuttavia per Eric «la vita è un grande sogno dal quale ci si risveglia più o meno di buon umore».
Weeeeeeeeeeeeee’ll drink a drink a drink / To Eric the King, the King, the King / He’s the leader of our football team / He’s the greatest French footballer / That the world has ever seen.