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“Dio, calcio e milizia”: Mihajlovic, Arkan e il ruolo del football nel conflitto slavo

Una recensione del libro di Diego Mariottini, ma anche la ricostruzione degli intrecci tra il processo di dissoluzione della Jugoslavia, le curve e i giocatori.

“Dio, calcio e milizia”: Mihajlovic, Arkan e il ruolo del football nel conflitto slavo

La cosiddetta memoria condivisa – nel paese dei guelfi e ghibellini, dei campanilismi, senza ovviamente dimenticare il binomio fascismo/antifascismo – è un concetto da maneggiare con cura, se poi accanto ad ingredienti storici e politici vi si aggiunge anche quello del calcio, ottenere un giudizio equanime diventa pura utopia. Il coefficiente di difficoltà diventa maggiore quando si affrontano questioni distanti dal perimetro italico ed incrociano episodi, territoried avvenimenti ancora distanti dall’essere storicizzati, motivo per cui è bene chiarire, preliminarmente, che per una questione di metodo e di stile, sarebbe d’uopo – quando si parla di guerra, pulizia etnica e massacri – una conoscenza mediamente approfondita degli argomenti di cui si discute, prima di rilasciare giudizi superficiali ed affrettati.

Uno dei casi più eclatanti e ricorrenti riguarda il processo di dissoluzione della Jugoslavia con i suoi numerosi lati oscuri ed ambigui protagonisti. Un testo che prova, in verità con scarso successo, a miscelare il fattore storico-politico-religioso con quello calcistico-sportivo è “Dio, calcio e milizia. Il comandante Arkan, le curve da stadio e la guerra in Jugoslavia” di Diego Mariottini [Bradipolibri, 14 euro].

La storia delle tigri

Come chiarisce lo stesso autore nell’introduzione, il libro è in primo luogo la storia di Željko Ražnatović – meglio noto come Arkan, capo delle milizie paralimitari serbe, le Tigri, e criminale di guerra – personaggio centrale nella Jugoslavia post-titina, che approfitterà del «risorgere del nazionalismo e dell’affermarsi della criminalità organizzata», per imporre la sua leadership, utilizzando la curva dalla Stella Rossa di Belgrado, di cui era leader indiscusso, come serbatoio di manovalanza. L’idea del testo è lodevole e per certi versi originale, l’errore di fondo sta nell’utilizzo delle fonti : il mediocre “Arkan, la tigre dei balcani” di Christopher S. Stewart, il copincolla di interi articoli di giornale sulla cui bontà sorge più di qualche dubbio – per esempio, in uno di questi, i Delije vengono definiti tifosi del Partizan Belgrado (!!!) – ed infine la scarsa assenza di contesto storico.

Il libro di Mariottini non consente perciò un’adeguata comprensione della complessa identità slava, delle sofferte spartizioni o dei molteplici confitti succedutisi tra il 1991 e 1999, ma offre spunti di riflessione interessanti su come lo sport, sempre troppo sottovaluto, possa fungere da detonatore in situazioni pronte ad esplodere.

Il calcio di Boban

Ad esempio il 13 maggio 1990 quando allo stadio Maksimir di Zagabria si affrontano i padroni di casa della Dinamo e la Stella Rossa, una giornata passata alla storia per il calcio di Boban – qui una sua testimonianza – ad un poliziotto, oltre agli scontri tra tifosi serbi e croati. In quei giorni la situazione era già magmatica, infatti il 6 e 7 maggio i nazionalisti dell’Unione Democratica Croata di Franjo Tuđman avevano vinto le elezioni, le prime libere dopo la fine del regime comunista, e pronti a rendersi indipendenti l’anno seguente.

Uno dei registi degli incidenti fu proprio Ražnatović che «le riprese televisive di quel giorno mostrano presente a bordo campo, vestito elegante in doppio petto scuro e in camicia bianca», il quale confesserà poi nel 1994 al giornale “L’Unità Serba”di «aver iniziato a trasformare gli hooligans della Stella in combattenti per la guerra dopo quella partita […] “Io avevo previsto tutto e sapevo che il pugnale degli ustaša avrebbe ricominciato a scannare bambini e donne della Serbia». Risulta evidente come il 13 maggio rappresenti una data spartiacque nella storia dell’ex Jugoslavia: per parte serba dalla testimonianza di Ražnatović, per parte croata dalla targa esposta di fronte al Maksimir “A tutti i tifosi della Dinamo la cui guerra cominciò il 13 maggio 1990 e che finirono per dare la propria vita per la Croazia”.

L’ascesa di Arkan

L’ascesa definitiva di Arkan inizia proprio in quel periodo, con numerosi appoggi tra i servizi dell’UDBA e la benevolenza del presidente serbo Slobodan Milošević, ma «finché non possiedi una squadra di calcio forte e vincente non sei ancora nessuno, perché non hai ancora la visibilità giusta a livello globale […] La scelta naturale dovrebbe cadere sulla Stella Rossa di Belgrado, ma il proprietario della squadra rifiuta la pur allettante offerta […] Dapprima acquista il Pristina Football Club del Kosovo (team dal quale estromette immediatamente tutti i giocatori d’origine albanese), ma dopo i primi insuccessi si disinteressa completamente delle sorti della squadra».

Nel 1996 acquisterà così l’Obilić Football Klub di Belgrado che, nonostante una gestione dai metodi spesso discutibili, condurrà alla vittoria del titolo nazionale ed alla qualificazione in Coppa Campioni. L’aneddotica sull’influenza e sul potere corruttivo di Arkan abbonda, ma dopo appena pochi anni, a seguito dell’accusa di crimini contro l’umanità da parte del Tribunale Internazionale dell’Aja, fu costretto a cedere la presidenza del club alla moglie Svetlana Veličković, questa decisione segnò inevitabilmente il lento declino del club.

L’epopea di Željko Ražnatović – uno dei tanti criminali di guerra, al pari di Ratko Mladić o Radovan Karadžić – si conclude il 15 gennaio 2000 nel bar dell’Hotel Inter-Continental di Belgrado, quando fu ucciso da diversi colpi di pistola esplosi dall’ex poliziotto Dobrosav Gavrić. Ai suoi funerali parteciparono 5000 persone.

La Lazio e Sinisa Mihajlovic

Nuovo vigore ed imperituro interesse alla figura di Ražnatović sarà dato dai tifosi della Lazio, il 30 gennaio 2000, i quali a distanza di due settimane dalla morte del comandante esporranno all’Olimpico uno striscione ormai celebre: “Onore alla Tigre Arkan”.

Ancora oggi si discute se sia stato un omaggio deciso autonomamente dalla Curva Nord o se l’idea sia stata di Siniša Mihajlović, all’epoca giocatore del Lazio, ma soprattutto amico di Željko Ražnatović.

E qui si apre un altro capitolo della storia. La liceità del legame tra Mihajlović e Ražnatović. Una questione che a distanza di quasi 18 anni dalla morte di Arkan, continua a far discutere e su cui ciclicamente si dibatte. Lo stesso allenatore del Torino è tornato più volte sull’argomento: nel 2009 intervistato dalla Corriere della Sera, lo difende strenuamente non rinnegando il necrologio né l’amicizia con il comandate definendolo «suo amico vero», che non tradisce né rinnega, oltre a ritenerlo «un eroe per il popolo serbo».

Ancora nel 2010, quando arrivato sulla panchina della Fiorentina fu criticato da Adriano Sofri prima su Il Foglio e poi sul dorso fiorentino de La Repubblica, in quel caso Mihajlović, preferì glissare: «Ho letto che cosa ha scritto su di me. Ma non ho nulla da dirgli. Sarebbe facile puntare anche io il dito, ma non commetto lo stesso suo errore. Conosco troppo poco la fase sanguinosa dell’Italia negli anni ’70 per permettermi di giudicare lui e la storia di quel periodo».

Conflitti

Al di là delle simpatie politiche, Željko Ražnatović ha avuto un ruolo ben preciso nella vita di Mihajlović, l’ultima conferma è arrivata appena un anno fa, durante il programma “Mister Condò”.

Si è liberi di ignorare quanto successe a Vukovar, dove «i croati erano maggioranza, noi serbi minoranza lì. Nel 1991 c’era la caccia al serbo: gente che per anni aveva vissuto insieme da un giorno all’altro si sparava addosso».

Si è liberi di ignorare che la madre di Mihajlović è croata ed il padre serbo. E «quando da Vukovar si spostarono a Belgrado, mia mamma chiamò suo fratello, mio zio Ivo, e gli disse: c’è la guerra mettiti in salvo, vieni a casa di Sinisa. Lui rispose: perché hai portato via tuo marito? Quel porco serbo doveva restare qui così lo scannavamo. Il clima era questo. Poi Arkan catturò lo zio Ivo che aveva addosso il mio numero di telefono. Arkan mi chiamò: “C’è uno qui che sostiene di essere tuo zio, lo porto a Belgrado”. Non dissi niente a mia madre, ma gli salvai la vita e lo ospitai per venti giorni».

L’elenco potrebbe continuare e potrei anch’io dare il calcio dell’asino a Mihajlović, dal mio appartamento fresco di aria condizionata nel centro di Roma e la pelle lievemente arsa dal sole – ignorando per fortuna cosa voglia o quello che si prova a stare in un conflitto – stabilire cosa sia giusto o cosa è sbagliato, proseguire in quello che Galli della Loggia in “Credere, tradire, vivere” definisce uso politico della storia, cioè non farsi « scrupolo di manipolare in vario modo i fatti o loro aspetti specifici ritenuti cruciali per giudizio generale (tacendoli o distorcendoli palesemente). Ovvero, che dai fatti trae conclusioni con ogni evidenza arbitrarie».

Orgoglio e pregiudizio

Ma faccio fatica. Molta. E non perché non ritenga Ražnatović un criminale di guerra – cosa che ammette lo stesso Mihajlović quando ritiene «orribili» e «non giustificabili» i suoi crimini – ma perché constato dell’approssimazione e del manicheismo nel giudicare, con distorte categorie storico-politiche, una guerra civile sui cui contorni, ad esempio ed incredibilmente, à l’italienne ancora si discute. Superficialità e pregiudizio che non risparmiano, come si è visto, l’ex giocatore di Lazio ed Inter, sulla cui testa piovono generiche accuse di “fascismo”, concetto onnicomprensivo di qualsiasi nefandezza al di là del merito.

Resta la circostanza stravagante e singolare per uno che si definisce: «nostalgico di Tito» e «più comunista di tanti»; certo non nasconde venature sciovinistiche – «se nazionalista vuol dire patriota, se significa amare la mia terra e la mia nazione, beh sì lo sono» – ma il titismo ed il movimento dei paesi non-allineati era anche questo; orgoglioso di essere zingaro e serbo; oltre – en passant – leader di quella Crvena Zvezda fondata da una lega di ragazzi e studenti antifascisti nella metà degli anni 40.

Mihajlović è stato un ottimo giocatore e, fino a questo momento, non ha brillato come tecnico, ma utilizzare il suo – indubbiamente – sofferto passato in maniera così bieca, misera e strumentale è operazione che calpesta la memoria di chi in quella guerra, da combattente o da innocente, ha perso la vita.

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