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Settant’anni di Zeman da sempre fedele a se stesso (pure troppo)

Non è solo una questione di fondamentalismo tattico, quanto di fedeltà a un ideale: Zeman è unico, non riproducibile altrove che in se stesso.

Settant’anni di Zeman da sempre fedele a se stesso (pure troppo)

Conoscere Zeman

Da tifoso del Napoli relativamente giovane, il mio primo incontro con Zeman non è stato proprio positivo. Era l’estate del 2000, Corbelli e Ferlaino danno via Novellino e Schwoch per prendere Zeman e Amoruso e le cose non vanno proprio benissimo. Non dico che la cosa ti segni per sempre, ma lascia una traccia. Soprattutto quando hai dieci anni e non riesci a capire proprio tutto.

Dodici anni dopo, conversavo in spiaggia con un tifoso della Roma. Il club giallorosso aveva appena annunciato Zeman, reduce dalla fantastica promozione di Pescara. Il bambino segnato che si era evoluto in un appassionato di calcio era rimasto comunque scottato da quell’esperienza con Zeman. E non giustificava l’entusiasmo dei tifosi della Roma per questa nuova avventura del boemo sulla panchina appena lasciata da Luis Enrique.

La risposta di questo signore mi fece capire che forse sbagliavamo entrambi, ma comunque sbagliavo pure io: «C’ho cinquant’anni, l’ultimo abbonamento l’ho fatto con Zeman e quest’anno lo farò di nuovo. Con Zeman, per Zeman. Perché sò sicuro che andrò all’Olimpico e mi divertirò».

Cambiare

Sarebbe inutile aprire un discorso tattico su Zeman. E forse è proprio quello il punto, la caratteristica fondativa e fondamentale. Quindi, lo facciamo sommariamente: Zeman è Zeman, non cambia e non si modifica. Il “si”, in questo caso, è particella pronominale dal doppio significato: il boemo non si può modificare, non si modifica da solo. Fedeltà assoluta a se stesso, qualcosina può cambiare ma sono cose minime. La struttura, l’idea. Anzi, in questo caso ci sta proprio: l’ideologia.

Il 4-3-3 come conseguenza dei principi di gioco, occupare il campo e tagliare dentro e tagliare dietro. Da qui, combinazioni e scambi e movimenti. Un sistema strutturato, pure difensivamente (anche se non sembra), ma troppo esposto da non caratterizzarsi per i gol. Quelli fatti, quelli subiti.

Da qui parte il discorso sui risultati. Non è una questione di Italia, di spettacolo, di campionato dal background difensivo. È l’analisi della cronologia a non (poter) convincere. Dopo Foggia, le squadre di Zeman hanno tagliato il traguardo solo in determinate circostanze, mai verificatesi quando la posta in palio era altissima. Zdenek ha salvato il Lecce nel 2004/2005, una grandissima stagione. Ha firmato la promozione del Pescara 2011. Con due gruppi giovani, con talento in abbondanza in attacco, con calciatori da costruire, letteralmente. La stessa invenzione di Totti, in realtà, è un suo merito. È quello il profilo di “calciatore di Zeman”. Neanche in questo caso si deroga.

Vincere, convincere, fallire

Se ci sono le condizioni, allora Zeman riesce a convincere. E a vincere, pure se in un determinato e ristretto ambito di situazioni. Il bello di Zeman è il viaggio, me (ce) l’ha spiegato il signore a Roma sotto l’ombrellone e il suo gruppo socio-calcistico di appartenenza, gli zemaniani convinti e inscalfibili. Amanti della bellezza, dello spettacolo. Che prescinde dal risultato finale. A qualcuno basta, ad altri no.

Descrivere Zeman per quello che (non) ha vinto è ingiusto proprio per questo. Più che altro, oggi che compie settant’anni ed è ancora lì, sempre uguale a se stesso, viene da chiedersi perché abbia rifiutato di aggiornarsi. Certo, per qualcuno può essere un pregio. Della serie: io non accetto compromessi, ne ho uno con me stesso ed è già tanto.

Però pensate per un attimo a un allenatore capace di trasmettere questa sua passione per l’estetica calcistica ma pure in grado di aggiustare il suo sistema fino a portarlo accanto all’evoluzione del gioco. Non parliamo per forza di risultati, del resto siamo Il Napolista e viviamo nell’epoca del Sarrismo, non potremmo e non possiamo ridurre per forza al codice binario Scudetto-Sì/Scudetto-no. Però, ecco, prendi Sarri: un teorico del gioco, anzi un teologo del gioco. Molto fedele a se stesso. Non un fondamentalista, però. Uno al passo con i tempi, ma fuori tempo per il calcio italiano. Come il boemo nel 1991, al primo anno di Foggia. Solo che il tecnico ceco è rimasto fermo lì, tra lampi accecanti e cadute rovinose. Sarri ha risistemato qualche pedina e sta riscrivendo la storia. Quella dei numeri, vedremo (speriamo) quella dei trofei.

Il rimpianto

La parola trofei mi fa pensare al post di quell’estate 2012. A febbraio del 2013, Zeman viene esonerato. È arrivato in semifinale di Coppa Italia, ha battuto l’Inter all’andata per 2-1. Deve giocare il ritorno, non lo giocherà mai. Toccherà ad Andreazzoli, che vincerà a San Siro e poi perderà il derby in finale. Chissà come sarebbe andata, con Zdenek. Avrei voluto vederlo, in una partita come quella.

Zeman che compie settant’anni è una bella storia. Zeman che compie settant’anni sulla panchina del Pescara è una bellissima storia. Non per la riconoscenza, né tantomeno per la retorica del complotto che viene destrutturata. È la fiducia in un’idea, sia essa pure anacronistica o superata (in un determinato contesto). È la fede. Quello che rappresenta Zeman, quello che è, quello che è stato. Sempre la stessa cosa, dopotutto.

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