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Scampia è un deserto con tante oasi di volontariato: «Lavoro giovanile, non l’esercito»

Reportage dal quartiere assurto a simbolo del degrado napoletano. Scampia si regge grazie alla passione e alla volontà di tante persone, ma le autorità fanno poco o nulla

Scampia è un deserto con tante oasi di volontariato: «Lavoro giovanile, non l’esercito»
Festa di primavera a Scampia

“Viva San Ghetto”

“Viva, viva san Ghetto che protegge la periferia, viva, viva san Ghetto che Scampia la salverà”. Parole musica e voce di Enzo Avitabile che, dosando abilmente rabbia, protesta e ironia, compose la ballata del “martire” protettore di tutte le periferie ispirandosi al mantra laico-religioso intonato nei giorni del Carnevale di Scampia. Trent’anni prima. Dopo il terremoto. Quei versi non sono passati di moda, anzi sono ancora più attuali soprattutto da quando la piazza è stata ripulita.

Tutti vogliono fare qualcosa, ma poco si muove

Oggi tutti vogliono fare qualcosa a Scampia, ma niente si muove, se si esclude la proposta dell’Istituto di studi filosofici di aprire una sede qui. La realtà è questa: prima Scampia era il tempio della droga, oggi è un deserto con tante oasi gestite dal volontariato che qui ha fatto miracoli e ha ancora voglia di sporcarsi le mani. «Un deserto, proprio così – dice Clotilde Sorrentino, la “pasionaria” delle associazioni, che gestisce un terreno strappato alla camorra -. O lo riempiamo di iniziative intelligenti o chiudiamo la pratica delle periferie che, nonostante le buone intenzioni, resteranno un pezzo staccato dal centro e niente più».

I volontari del Gridas

La statua del “martire” era in realtà una trasposizione della maschera di San Gennaro e la trovata geniale, capace di ridestare l’orgoglio sopito ma non vinto del popolo, fece molta simpatia e valse al cantautore anche un David di Donatello, ma le cose non sono mutate. E i volontari del Gruppo risveglio dal sonno (Gridas) fondato da Felice Pignataro, artista geniale e leader carismatico del quartiere, non sanno più a quale santo rivolgersi per ottenere più lavoro più scuola e più vita di relazione.

A Felice Pignataro, morto nel 2004, è stata dedicata la fermata Scampia-Piscinola del metrò che si chiama Felimetrò per tramandare ai posteri la lezione del suo impegno civile oltre che la sua arte. Tropo poco e troppo semplice: il grande Felice con i suoi duecento ha lottato per conquiste più importanti che, però, non sono state raggiunte e le promesse non mantenute “pendono” come ex-voto per “grazia da ricevere” sulla mantella di San Ghetto.

L’elenco è lungo: la piazza telematica più volte inaugurata ma rimasta una scatola vuota; i “concertoni”, cioè gli eventi di un solo giorno, sporadici e non radicati; lo stadio costruito e mai inaugurato; le discariche e gli inceneritori mai nati. Scampia, insomma, è una grande incompiuta e non c’è da stupirsi se la preghiera laica di Enzo Avitabile è il pezzo più gettonato tra quelli inseriti nel juke-box dell’attesa.

L’immagine del fallimento urbanistico

L’attualità di quei versi è ancora fortissima perché, vista dal di dentro, Scampia, nonostante gli indubbi segnali di vitalità e in qualche modo anche di produttività, resta l’immagine del fallimento urbanistico («Solo vele e palazzoni ma si manca tutt’o riesto qui la gente come fa» canta San Ghetto) e sociale delle periferie. Da qui e prima ancora dal rione Traiano e da Monteruscello, presentati come le prime new town capaci di diventare autosufficienti, sarebbe dovuto partire il riequilibrio territoriale ed economico tra la città borghese e la banlieue. Ma sappiamo come è andata a finire. Non c’è pezzo di città più dipendente dal centro – a sua volta ugualmente incapace di provvedere a se stesso – delle periferie.

La scuola calcio Arci-Scampia

E il distacco si “vede” soprattutto da quando la piazza di spaccio è stata smantellata dalle forze dell’ordine e da quando il volontariato, attivissimo in queste zone di frontiera, ha preso coscienza del suo ruolo ed è riuscito a conquistare un minimo di riconoscibilità. E di operatività. Gli abitanti se ne sono fatta una ragione ed è per questo che a Scampia si respira un clima più positivo: «Siamo abbandonati a noi stessi – dice Antonio Piccolo, instancabile animatore della scuola di calcio Arci-Scampia che ha 400 iscritti – ma continuiamo ad andare avanti, lo dobbiamo a questi ragazzi che imparano sul campo le regole del gioco e della competizione onesta. È difficile, però, e ancora oggi, dopo tutto quanto abbiamo fatto, li osservo e mi intristisco: a venti anni, mi chiedo, cosa faranno»?

“L’esercito non serve più, abbiamo bisogno di risorse”

Nel corteo del Carnevale i “fedeli” di San Ghetto, racconta la collega Diletta Capissi che da questa realtà ha mosso i primi passi, sfilano e cantano ma se la cantano e se la suonano da soli perché la città ufficiale – il Comune, la Regione, la Prefettura, la Chiesa – hanno altro cui pensare: fanno le promesse e scappano convinti di essere in pace con la coscienza. «Ma non sanno che li tormenteremo fino a quando non pagheranno il debito che hanno accumulato nei nostri confronti – dice Rosario Esposito La Rossa, che è il personaggio simbolo della lotta che le associazioni stanno combattendo –. L’esercito, ora che la faida è conclusa, non ci serve più, è una presenza inutile e ingombrante, qui storto o morto si sta bene, e ai criminali è rimasto solo il pizzo di piccolo cabotaggio.

Abbiamo bisogno, invece, di occasioni di lavoro e di servizi, ma chi comanda non vuole capire che a Scampia manca poco per decollare, questo, anzi, è un momento bello, siamo il centro della città metropolitana, abbiamo risorse di spazio e di lavoro giovanile, se si investe usciamo dalla crisi. Più spazio ai giovani, ma quando si comincia? L’Università è fondamentale ma dopo quindici anni l’inaugurazione e la scelta degli insegnamenti non è stata ancora effettuata. E intanto la disoccupazione giovanile è arrivata al 70%». San Ghetto pensaci tu, verrebbe voglia di dire, ma il peso degli ex voto minaccia di abbattere il “martire”.

Quelli che operano sul territorio

I rappresentanti del volontariato – tranne Mirella, la compagna di Felice Pignataro – sono riuniti in circolo ai margini del campo dell’Arci. Ci sono tutti: Clotilde Sorrentino, responsabile dell’associazione “Pollici Verdi” che coltiva un campo – un tempo piazza di spaccio – grazie ad un trattore acquistato a piccole rate; Franco Maiello del Caffè Letterario e prima ancora di “Fuga di notizie e Solidarietà e partecipazione” che era una creatura di padre Vittorio Siciliani che qui è un presidio fondamentale al pari dei Gesuiti.

E c’è ancora Aldo Bifulco che ci ricorda la Rete di Pangea per l’educazione alla non violenza e il grande lavoro intorno al Teatro dell’Area Nord (TAN) oggi diretto da Lello Serao che prosegue l’opera avviata da Renato Carpentieri che qui è una sorta di icona. Il Tan è stato il primo incubatore culturale ed è riuscito a mettere in piedi un servizio di navetta che collega il teatro di Scampia con il Nest e arriva fino al Bellini.

L’accoglienza fredda alla famiglia Marotta

Molto si muove, insomma, ma troppo poco si ottiene da chi dovrebbe avere già pronto il progetto della nuova Scampia. Dalle risposte che ci hanno dato sembra sia stata abbastanza fredda l’accoglienza all’annuncio di una nuova sede dell’Istituto per gli studi filosofici. «Per carità, ringraziamo di cuore la famiglia Marotta, ma Scampia ha bisogno soprattutto di diventare una città viva, autosufficiente e proiettata nel futuro. Per questo siamo ancora all’anno zero». E qui parte la proposta: concentriamo in una delle vele che si dovranno abbattere tutti i servizi comunali che mancano. «Fateci sentire finalmente cittadini di Serie A». Lo ha predicato anche San Ghetto: la nostra aspirazione è solo la normalità.

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