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Il brand è più importante dei risultati: il paradosso del calcio inglese (e della Premier)

Il campionato più bello del mondo produce solo due club su sedici nei quarti delle coppe europee: un fallimento sportivo, che però “non conta”.

Risultati

“Ball don’t lie”. E nemmeno i numeri. Tra le otto migliori d’Europa (Champions) e le otto rimaste in Europa League ci sono solo due squadre inglesi. Ergo: il campionato più bello (e più pagato) del mondo non produce le squadre più forti del mondo. O, almeno, non produce squadre che vincono. Possiamo dirlo. Abbiamo il conforto dei risultati. Che poi, basta riavvolgere la pellicola di questi ultimi anni per rendercene conto. L’ultima squadra di Premier ad essere arrivata in una finale di Champions è stata il Chelsea, anno domini 2012. Dopo, le semifinali 2014 (sempre dei Blues) e 2016 (del Manchester City). Stop, basta così. In Europa League, due sole finali negli ultimi sei anni (Liverpool 2016, Chelsea 2012). Sono fotografie di albi d’oro di gran lunga migliori rispetto a quelli della nostra Serie A, ma restano comunque fallimentari, in proporzione agli introiti della Premier. In proporzione alla narrazione della Premier, alla sua inattaccabile dimensione di “campionato più bello del mondo”.

Il fatto che il Leicester City sia l’unico club inglese nell’urna dei quarti di finale di Champions a Nyon dice tanto sullo stato dell’arte del calcio inglese. Certo, alla fine le Foxes potranno anche vincere la competizione. Mai porre freni o limiti alla provvidenza, ce l’hanno raccontato proprio nelle Midlands. Allo stesso tempo, però, parleremmo di un exploit. Di un episodio incredibile e irripetibile. Di un caso. Del resto, la squadra campione d’Inghilterra oggi lotta per non retrocedere.

Vendere la confezione

Quindi, come dire: attenzione alla Premier. Attenzione a quello che è davvero la Premier, a questa storia di soldi e di brand che ci insegna cos’è diventato il calcio. Non più uno sport-e-basta, ma non ne facciamo una questione di retorica, quanto di opportunità. Oggi, ma pure domani e dopodomani, la Premier resta e resterà il campionato più seguito, interessante e quindi pagato del mondo. Nonostante le migliori squadre del continente non giochino qui. Per “pagato”, ovviamente, vogliamo “richiamare” i diritti tv che fanno piovere sterline su tutti i club del massimo campionato inglese.

La lezione è semplice: il brand vende molto più dei risultati. Remember. È un po’ come la storia dell’iPhone. Tu, imprenditore facoltoso del New Hampshire, potrai anche inventare e costruire e produrre uno smartphone dalla prestazioni incredibili, dal design accattivante e dalle funzioni futuristiche. Lagggente vuole l’iPhone. Compra il brand, compra lo status sense che diventa status symbol.

Stessa cosa nel calcio. Basta riprendere un articolo de Il Post (commentato dal Napolista, fu un crossover molto letto e commentato) per capire cosa intendiamo. “Le squadre italiane sono brutte”, mentre invece quelle inglesi “sono belle”. È vero. È una questione di confezione: la managerialità della Premier League va oltre il campo, oltre i risultati modificabili da un colpo di vento o da una deviazione. Va oltre perché vede oltre. Pure oltre il campo, l’abbiamo già scritto. Ora bisogna capire accezioni positive e negative di questo orientamento.

Il progetto dei soldi

Perché poi basta riprendere la rosa delle squadre in attesa dell’esito dei sorteggi per capire che qualcosa, in Inghilterra, non funziona. Quattro club spagnoli su sedici. Tre tedeschi. Due belgi. Certo, noi italiani siamo indietro (c’è solo la Juventus), ma almeno siamo coscienti di avere qualche problema (eufemismo) nell’imporci al calcio europeo. I club inglesi, invece, continuano nel loro modus operandi e se ne sbattono altamente del fatto che Celta Vigo e Besiktas siano ancora in corsa mentre il Tottenham è rimasto a casa. Proprio il Tottenham, poi: il progetto più elettrizzante e organico dell’intera Premier, tanto da spingere Marco Ciriello a scrivere sul Napolista che amare il calcio vuol dire tifare gli Spurs. Anche contro la “favola” Leicester. Soprattutto contro la favola Leicester – era la primavera 2016.

Quel qualcosa che non funziona in Inghilterra è stato spiegato – in un confronto abbastanza severo con quello che avviene nella Liga – in alcuni pezzi pubblicati su EspnfcSid Lowe, ad esempio, scrive che «oltre i giganti Real e Barça, il calcio spagnolo garantisce competitività attraverso le idee. Il denaro rende i club inglesi pigri, mentre le casse vuote spingono a cercare soluzioni nuove, più fantasiose e sostenibili. In Spagna ragionano in questo modo. Certo, non tutti i club della Liga sono perfetti. La maggior parte di essi, però, ha un’identità. Un progetto definito a cui lavorare».

L’altro lato della medaglia è quello riguardante la politica di reclutamento: in un’intervista-confronto tra Richard Grootscholten, direttore del settore giovanile dello Sparta Rotterdam, e Kevin Sheedy, tecnico dell’Academy dell’Everton, Grootscholten spiega: «Se la squadra ha bisogno di un’ala sinistra, hai due possibilità: sviluppare un giocatore nel settore giovanile o comprane uno per 40 milioni di sterline. Al momento, i club inglesi hanno abbastanza soldi per scegliere la seconda opzione».

Le eccezioni

Certo, ci sono le eccezioni. La Premier sta provando a crearsele, a cercarsele, ad attrarle (perché no). Lo stesso City di Guardiola porta avanti un progetto organico di gioco-crescita del club, con acquisti giovani (per quanto costosissimi e fortissimi) e un’attesa programmata – ma dolorosa. Il Tottenham di Pochettino, il Liverpool di Klopp. Squadre che provano una strada, quella del gioco mista a una certa politica di reclutamento. Poi, però, arriva il Manchester United di Pogba, Ibrahimovic e Mourinho a ricordarci cos’è la Premier. Il Chelsea di Conte in testa alla classifica, pure meritatamente. E devi tenere il passo, e puoi farlo solo coi soldi.

La bellezza del calcio inglese è nella sua competitività, che è parte della confezione di cui sopra. Quello che basta per essere i più ricchi, i più belli, i più pagati. Non i più vincenti. Ma questo non pare rappresentare un problema serio. O, quantomeno, non tanto serio da rivedere e scrivere il sistema. È il brand a vendere, remember.

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