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Napoli-Pescara del 1980 e il colbacco di Giagnoni

Amarcord della sfida casalinga tra azzurri e abruzzesi: la seconda in Serie A è il 2-0 di Improta e Guidetti dopo il Calcioscommesse, le dimissioni di Vinicio e l’arrivo di Juliano.

Napoli-Pescara del 1980 e il colbacco di Giagnoni

Il freddo

A memoria d’uomo non ricordavamo giocatori del Napoli scesi in campo con le calzamaglia, come è successo contro lo Spezia, dai tempi della famosa sfida giocata in Olanda contro l’Ajax nel gennaio 1970. Quattro pappine dallo squadrone di Cruyff e tutti a casa. Un altro precedente: la gara di Coppa delle Coppe col Bodoe Glimt nel settembre del 1976, quando la squadra partì da Capodichino portandosi dietro il cappotto. In Norvegia, oltre il circolo polare artico, si andò come Totò e Peppino a Milano, “noio volevam savoir”.

In questo periodo di freddo intenso e gelido, dove il termometro impazzisce, scende sotto lo zero e dove si esaltano i ventimila coraggiosi presenti al San Paolo per la gara contro i liguri, molti con le coperte sulle ginocchia, ci è venuto in mente il cappotto del ‘Petisso‘ Pesaola. Ma anche il colbacco che indossava Giagnoni quando allenava in Serie A. Il tecnico sardo, in tutti gli stadi italiani, era facilmente riconoscibile perché dal tunnel degli spogliatoi si vedeva spuntare prima il suo cappello e poi la sua paciosa faccia da simpaticone.

Pescara

Allenatori-personaggi

Era l’era degli allenatori-personaggi, del prima non prenderle, degli HH, del “va in mona” di Nereo Rocco, delle dichiarazioni al tritolo ai quotidiani sportivi e dei Pugliese, ispiratore di Lino Banfi per il suo Oronzo Canà. Se Pesaola è stato l’allenatore col cappotto di cammello, Giagnoni è stato l’allenatore col colbacco. Un uomo fuori dagli schemi, uno che non ci pensò due volte quando sferrò un pugno allo juventino Causio che lo aveva sbeffeggiato per tutta la partita, uno che abbandonò la panchina in segno di protesta nei confronti dell’arbitro Menicucci durante un Udinese-Pescara per un fuorigioco, uno che non le mandava a dire a Gianni Rivera. Un sardo testardo e cocciuto che seppe guidare anche grandi squadre: ecco chi era Giagnoni.

Il colbacco e la tuta

Il dato di fatto è che, un po’ per ironia e un po’ per scaramanzia, indossò quello strano copricapo per diversi anni senza pensare che potesse risultare un personaggio folkloristico. A ben vedere, tra i tecnici odierni, la tuta di Sarri appare il massimo della libertà, dell’anti conformismo, del ‘vado in campo come mi pare’ di fronte a mister ben vestiti, a tratti eleganti, sempre tirati a lucido e pettinati a puntino. Giagnoni indossava il suo cappello portafortuna negli spogliatoi, si intabarrava nella sua pelliccia e l’immancabile sciarpa e si fiondava in campo, il sorriso sulle labbra, si guardava intorno come per dire “cavolo, dalla Sardegna sto allenando a San Siro” o “sono diventato un simbolo del Toro”.

Vestito così, passò per mangiapreti e bolscevico ma quel colbacco, regalatogli da un tifoso del Mantova che li importava dalla Lapponia, fu la sua fortuna, gli sportivi lo identificavano con quella immagine. Tutto iniziò quando, con i primi freddi, cominciò ad indossarlo e a Torino, sponda granata, successe il finimondo. Dopo le vittorie nei derby, quando Pulici gonfiava le reti e spezzava le reni ai bianconeri, lo obbligarono a tenerlo come portafortuna fino alla fine del campionato.

Giagnoni e il Pescara

Dopo aver lasciato il segno in tutte le grandi squadre dove è stato, anche se solo per due o tre anni, cicli brevi, alla fine degli anni ’70 sembrava nessuno volesse più il grintoso ‘Giagno’ e il suo colbacco. Invece, dopo la rottura con la Roma, arrivò la chiamata del Pescara. In quell’anno, il 1979-80, può essere considerato lo spartiacque nella sua carriera da allenatore, l’anno in cui iniziò a confrontarsi con il mondo delle provinciali.

Passò da San Siro e l’Olimpico all’Adriatico senza colpo ferire. Dopo essersi seduto, infatti, sulle panchine di Torino, Milan, Bologna e Roma, arrivò la chiamata della neopromossa società abruzzese che doveva sostituire la fallimentare gestione di Angelillo già alla quinta giornata di andata. Fu anche questa un’esperienza breve, segnata dalla retrocessione, ultimi e fanalino di coda. Ma l’uomo di Olbia voleva ancora dimostrare che non era finito e accetterà poi di allenare l’Udinese, il Perugia, il Cagliari in due occasioni, il Palermo fino al declino con i grigiorossi della Cremonese ed il primo amore, il Mantova, che portò dalla C2 alla C1 nel 1992.

Napoli

La seconda Napoli-Pescara al San Paolo

Il 5 aprile 1980 il ‘delfino’ abruzzese scende a Napoli. Solo due settimane prima il calcio italiano ha subito il terremoto del calcio scommesse, sui giornali non si parla d’altro ma il campionato continua. Il Pescara di Tobia, che ha sostituito Giagnoni squalificato per un alterco con l’arbitro Menicucci, è imbottito di vecchie glorie: Chinellato, Prestanti, Negrisolo, Ennio Pellegrini, Ghedin, Cerilli, Boni, Silva, Nobili, sembra più un ospizio che una squadra di calcio. Solo in porta ha un giovane di belle speranze. Si chiama Piagnerelli e in questa partita farà parate miracolose sui bombardamenti di un Napoli sinceramente incazzato per vari motivi. Il giovanotto capitolerà solo su due colpi di testa di Improta e Guidetti, non degli specialisti.

guidetti

Guidetti

Gli azzurri, punti nell’orgoglio e reduci dalla sconfitta interna col Milan, fecero un partitone e a tratti sembrò di ammirare la squadra di Vinicio. Possibile nel 1980 rivedere gli stessi automatismi di cinque anni prima? A riavvolgere il nastro di quella gara diremmo di sì. Giocatori che verticalizzano, tiri da tutte le posizioni, tourbillon a centrocampo, un Filippi instancabile, le fasce come vasche di una piscina, scambi ravvicinati, possesso palla. Fu il canto del cigno perché, dopo quella partita, Vinicio rassegnò le dimissioni, stufo delle contestazioni, insieme ai due dirigenti Punzo e Brancaccio. Pare che il tecnico brasiliano si sia risentito dopo che una bomba carta era stata fatta esplodere sotto la sua panchina, fortunatamente in sua assenza. Si materializzò il fantasma di Monzeglio che, qualche anno prima, aveva subito la stessa sorte.

Napoli

Ferlaino, nel caos che seguì, si riservò di accettarle ma poi affidò la squadra a Sormani. E il giorno dopo nominò per la prima volta Antonio Juliano direttore generale del Napoli, fu lui il nuovo plenipotenziario del Ciuccio. Due miti che hanno sempre sfilato nell’immaginario dei tifosi partenopei, Juliano e Vinicio, amici da sempre, si passarono uno scomodo testimone. Uno, il brasiliano, sembrava essere caduto in disgrazia, l’altro, il napoletano, doveva gettare le basi per costruire la nuova squadra. Dirà anche, al momento dell’insediamento, «Il Napoli sono io» ed andrà in Canada a comprare Rudy Krol per un nuovo inizio. Lontani quei tempi per gli azzurri, lontano anche quel colbacco, forse oggi impolverato, che sta per compiere 85 anni.

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