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Terremoto in Irpinia, la ricostruzione ha tradito l’appello di Rossi Doria

Nessuno ammetterà che le scelte di fondo furono sbagliate. Oggi l’Irpinia è profondamente diversa: più anonima e senza anima

Terremoto in Irpinia, la ricostruzione ha tradito l’appello di Rossi Doria
I soccorsi a Sant'Angelo dei Lombardi dopo il terremoto del 1980

Trentasei anni fa. Dovrei aggiungere il banalissimo “sembra ieri” ma vi risparmio il supplizio. È giusto ricordare il terremoto, ma la scelta peggiore è farlo con una, dieci cerimonie nelle quali si consente ai politici di oggi di esibirsi in un amarcord struggente di “quei giorni”. Ascoltando il “gazzettino” della Rai regionale, invece, ho avuto modo di constatare che anche quest’anno la speranza di un approccio consapevole è andata delusa: il rituale dell’anniversario è stato ripescato dalla scrivania del segretario generale del Comune, i nomi degli oratori sono stati sapientemente scelti e il fiume di retorica sta per tracimare inondando valli e contrade. Dove Cristo si è “fermato” come a Eboli e in tutto il Mezzogiorno.

Il pericolo che questo accadesse lo avevamo paventato con Roberto Ciuni quando preparammo un rapporto ad un anno dal 23 novembre ed evitammo di cadere nell’errore. Il Mattino, infatti, pubblicò una sorta di grande quaderno raccogliendo solo le pagine che il giornale con la sua task force di inviati – più di cinquanta giornalisti – aveva dedicato al racconto caldo di “Quei giorni”. Il titolo non ha bucato l’audience delle coscienze come riuscì con FATE PRESTO ma ha lasciato il segno e ancora oggi molti lo ricordano. “Quei giorni”, appunto: un diario essenziale, un solo pregevole saggio del direttore seguito dalla registrazione del lavoro degli inviati. Rivendico con orgoglio un grandissimo merito: i cronisti del Mattino furono più solleciti degli esperti del ministero dell’Interno a fornire l’elenco delle vittime. Un lavoro massacrante, ma un grande esempio di giornalismo di servizio. I colleghi che lo portarono a termine lo costruirono visitando tutti i centri di raccolta degli sfollati, nessun altro sentì il dovere di farlo.

Oggi, invece, si parlerà della ricostruzione (quasi) ultimata e nessuno ammetterà che le scelte di fondo furono sbagliate. Trentasei anni dopo il terremoto, l’Irpinia del cratere è profondamente diversa: più anonima e senza anima, rispetto a quella che Rossi Doria supplicò invano di difendere lanciando un appello, oggi si direbbe un hashtag: «Non separate la stalla dalla casa del contadino, devono restare un tutt’uno». Ognuno, invece, si prenderà la sua parte – sovrabbondante – di meriti. Restando mille miglia distante dalla realtà drammatica con la quale tocca fare i conti. E l’uditorio applaudirà perché così è previsto dal rituale.

Noi, però, riprendendo la cifra da un editoriale di Isaia Sales, preferiamo “celebrare” l’evento ricordando che nonostante il fiume di denaro pubblico che è scorso ancora oggi sono duemila i cittadini irpini che ogni anno scelgono, per vivere e per “ricostruirsi”, un paese diverso e lontano dal suo “presepe”. Riuscendo a sopravvivere con il poco a lui riservato, ma con il tanto rappresentato dagli affetti e dalle abitudini di vita. Cancellando l’economia rurale, il tentativo di recuperare almeno lo “spirito” dei paesi distrutti è miseramente fallito. Tentando, invece, di trasferire Brasilia a Lioni il rimedio si è rivelato peggiore del male. E ha premiato solo chi ha lucrato per il suo tornaconto: il cratere ha cambiato volto, ma chi lo abitava ha scelto di fuggire da una realtà che non gli appartiene più. Ed ora si rischia di fare altrettanto ad Amatrice: il lupo italico, come quello irpino, perde il pelo ma non il vizio.

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