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Perché Noodles è un napolista

C’era una volta in America tratta due temi cari a Napoli: la memoria e l’illusione. Più che un articolo, è un saggio che parla tanto di noi.

Perché Noodles è un napolista
Noodles

La memoria e l’illusione

Qualche tempo fa mi è capitato di rivedere, mentre viaggiavo in treno, C’era una volta in America di Sergio Leone. L’ho scelto come quando si sfoglia, di tanto in tanto, Moby Dick di Melville o una pagina qualunque di Dostoevskij, con la consapevolezza cioè che non si tratti di comprendere una trama quanto piuttosto di avvicinarsi ad una bibbia di strumenti da poter utilizzare altrove, un vocabolario di significati. Non è necessario che io aggiunga la milionesima interpretazione possibile al capolavoro del regista italiano. Ma vorrei qui provare ad usarlo come chiave di lettura, poiché il film può concederci moltissime prospettive interessanti dalle quali osservarci, sia come napoletani singoli che come parte di una comunità più larga, di un popolo, essendo in fin dei conti un’opera d’arte che tratta due temi cruciali a noi cari: quelli della memoria e dell’illusione, due fuochi attorno ai quali ruota una enorme parte di Napoli e del suo calcio.

Il protagonista è Noodles, “spaghetti”, l’uomo che più di tutti appartiene alla strada perché di quella strada porta per sempre la puzza; quella di cui Max, l’amico ambizioso, vuole disfarsi andando incontro al sogno impossibile di svaligiare la Federal Reserve; quella che Deborah, l’amore inarrivabile, lascia dietro le spalle mentre recita il Cantico dei Cantici e lavora per la carriera a Hollywood; la stessa che Noodles tiene testardamente con sé perché lo fa “sentire vivo”.

In questo, Noodles è in un certo senso un napolista. Perennemente ritenuto fuori chiave, in quasi ogni contesto.

Ha vissuto la sua giovinezza di miseria ed esaltazione, poi al culmine del sogno le condizioni al contorno sono mutate ed è stato tradito, come sempre accade al termine di ogni vertigine. Allora decide di vivere nascosto, quasi seguendo il dettame di Epicuro. Lavora per trentacinque anni col solo obiettivo di dimenticare, facendo null’altro che “andare a letto presto”. Noodles è quasi un Orfeo al contrario, un uomo che fatica tutti i giorni della propria esistenza per non riportare in vita un sogno defunto, per ricacciarlo nell’angolo più lontano degli inferi. Ma il passato lavora come una bestia nell’oscurità e lo scova, gli manda una lettera e lo richiama ai luoghi che ha abbandonato. “E questo che significa?” gli chiederà Fat Moe. “Significa: Caro Noodles, anche se ti eri nascosto nel buco del culo del mondo, eccoci, ti abbiamo trovato. Significa: preparati”.

La puzza della strada

La puzza della strada di Noodles è un marchio a fuoco. Ma anche una bussola. Egli sa che la memoria non riposa e si ciba di presente, si nutre del sangue dell’oggi, drena tutte le sostanze vitali. Sa, soprattutto, che la memoria è una luciferina tentatrice. Leone ne propone un ritratto mirabile nella scena in cui Patsy, ragazzino e vergine, acquista il dolce con panna da cinque cents da portare a Peggy per comprarne qualche minuto di agognato piacere. Peggy si fa intravedere con la schiena nuda, mentre fa il bagno, come una straordinaria dea della lussuria. È il simbolo del futuro che viene, delle promesse di un avvenire prossimo fatto di melliflui piaceri sconosciuti. Eppure basta che l’attesa per quel domani si prolunghi per qualche secondo in più perché Patsy si lasci andare e ingurgiti tutto il dolce appena incartato. “Sarà per un’altra volta” si dirà. È la medesima risposta che noi napoletani ripetiamo alle opportunità che ci si presentano da decenni. Il futuro non regge la prova della fame. E la fame è la memoria.

Eppure – e qui c’è uno dei grandi meriti dell’opera – in nessun momento C’era una volta in America risulta una condanna del ricordo. Il film ne mostra la parte ferale e la gamma di contromisure necessaria a non finirne ammazzato. Ne mostra il costo, in sostanza, che è il carcere, il cui prezzo Noodles sarà l’unico del gruppo a pagare. La prigione lo renderà per sempre un disadattato, un uomo fuori contesto, anche un potenziale nemico per le ambizioni sfrenate di Max e Deborah, la competizione e l’amore, l’amico che lo sfiderà sempre e l’amore che non potrà mai raggiungere. Noodles cercherà di proteggere il primo e acciuffare il secondo, sempre in modo maldestro, perennemente in ritardo. Ma poi accetterà la sconfitta. Ecco dove, a mio avviso, Leone ci ammaestra. Noodles andrà via perché la sua storia è differente e gli ha insegnato che opporsi al tempo, sia trincerandosi dietro la memoria che rincorrendo un domani perennemente in movimento, rende pazzi – “tu sei pazzo” continuerà a dire, testardamente, e sino alla fine, a Max.

Il bisogno di avvenire di Max

Dunque, se il tempo è così pericoloso, pur costituendo il letto del fiume della nostra esistenza, come ci si può rapportare ad esso? Lo confida Noodles, quando risponde a Fat Moe sul perché egli sia tornato e voglia dare una chiave di lettura al passato, correndo il rischio di essere da quest’ultimo trasformato in una statua di sale. “La curiosità”. Noodles è l’unico animo curioso del film. È l’unico a non avere alcuna intenzione di rivivere la memoria ma solo di capirla, alla ricerca di uno strano equilibrio. Così si prepara una girandola mirabile di paradossi nella quale Leone mostra l’identità tra la crudeltà del passato e le insidie della ricerca smodata del futuro. Max è stato trasfigurato dal suo stesso bisogno di avvenire ed è divenuto Bailey, un politico ricco ed ora incastrato dal tempo, che si umilia a chiedere a Noodles di fargli saltare in aria la testa – che è la testa della memoria, del tempo che si è ramificato sviluppando un terribile veleno. Ma Noodles è trincerato ed immobile nel suo ricordo, lo ha maturato in una illusione incomunicabile, concentrata completamente su di sé.

Noodles non vive più alcuna memoria, ne è solo uno scrigno vivente, la conserva disinnescata in se stesso in una aurea spessa di illusione, la interpreta, nel fumo dell’oppio del cinema cinese.

La solitudine di Noodles

È commovente lo sforzo di questo personaggio. Titanico e solo. Persevera nel voler conoscere eppure non condanna. Continua a non approvare ma non pronuncia parola. Riconosce i vincenti alla partenza e li lascia correre come cavalli sfrenati anche se ciò comporta il guardarsi e vedersi un perdente. Come un uomo che si getta a corpo morto su di una bomba che sta per esplodere per attutirne l’impatto col mondo circostante, e che pure ride mentre muore. Conoscere la memoria e vivere il presente, dunque, richiede un sacrificio epico. Rende necessaria l’illusione che separi la realtà dal nostro ricordo. Prescrive che tale illusione non sia comunicabile. Noodles – napolista – d’altra parte, è un uomo silenzioso.

“Ce lo prendiamo nel culo. Perché, è proibito dalla legge?”

Quante cose può dirci questo enorme capolavoro su noi stessi, su Napoli, napoletani e napolisti? Sulle nostre miserie e le nostre vertigini? Non riesco neanche ad enumerarle. Ciascuno può – anzi, deve – fare da sé. Due sole cose mi piace ricordare, per concludere. La prima è la frase del film che mi ripeto spesso. È la risposta che Noodles dà al poliziotto che chiede provocatoriamente ai ragazzi cosa stessero facendo fermi su quel marciapiede, proprio un attimo dopo che il giovane Max ha soffiato loro un colpo con l’inganno: “Ce lo prendiamo nel culo. Perché, è proibito dalla legge?” Raramente una frase sa racchiudere tanto. Svela una verità davvero assoluta, ossia che l’unica cosa che mai potrà essere bandita da nessun sistema di leggi è la sconfitta. Si può proibire di vincere, ma non si può decretare impossibile che si perda. Noodles è dunque un perdente, come tutti gli uomini che abitino seriamente la memoria e l’illusione. La seconda è un brano tratto da un autore a me molto caro, Henry Miller, sul finale del penultimo capitolo del Tropico del Cancro. Sono le riflessioni finali di un americano che ha vissuto visceralmente l’Europa e Parigi e confronta il nuovo ed il vecchio continente, riscontrando quanto il secondo sia asfissiato dalla propria storia: “C’è qualcosa di osceno in questo amore del passato che finisce con la fila del pane e col ricovero. Qualcosa di osceno in questo ricatto spirituale che consente a un idiota di spruzzare acqua benedetta sulla Gran Berta e sulle corazzate e sugli alti esplosivi. Ogni uomo con la pancia piena di classici è un nemico della razza umana”.

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