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Napoli sta smarrendo la sua identità (e noi la vogliamo da Sarri?)

Il Napoli non è cattivo perché non lo è Napoli. Una città che buona lo è sempre stata, ma che oggi sta smarrendo la sua identità, talvolta sfociando nel macchiettismo.

Napoli sta smarrendo la sua identità (e noi la vogliamo da Sarri?)
Maurizio Sarri fotografato da Matteo Ciambelli

Stanotte ho avuto un incubo. C’era Sarri che veniva cacciato a calci in culo dalla città da un noto scrittore e tifoso napoletano. Il toscano, a bordo di uno scalcagnato taxi, se ne scappava da questa meravigliosa pista di Formula Uno che è Napule. I tifosi del Napule lo avrebbero anche impedito, ma, vedete, erano tutti all’interno del San Paolo, che sorgeva stavolta non a Fuorigrotta ma sulla bocca del Vesuvio spento, ad applaudire Paolino Cannavaro. C’erano anche i Monty Python e perfino il cardinale Voiello, però loro ad applaudire il celebre scrittore. Che cazzo vorrà dire?

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“Napolista” è anche la mia casa. Le chiavi le ha naturalmente Max ma posso scrivervi – credo – quello che voglio e sapere di trovare orecchie attente, anche se dissenzienti, soprattutto se dissenzienti.

Confesso di non comprendere molto e non gradire il malumore – di minoranza (una “ribellione delle elites”?) – montante nei confronti di Maurizio Sarri, come non comprendevo e non gradivo quello – di maggioranza (“ribellione delle masse”?) – verso il suo predecessore.

Sgombro il campo da equivoci, non mi sono innamorato del tecnico toscano per una sua figaggine letteraria, quel sembrar essere schizzato fuori da una pellicola di Ken Loach, un Fidel del pallone, un “working class hero” messo al mondo all’ombra degli altiforni di Bagnoli e cresciuto nella nebbia di Figline Valdarno, venuto su con le letture “giuste” (Bukowski, Fante). No, non mi sono innamorato di questo, non più di quanto mi attraesse il mondo di Rafa, fatto di illuminismo, eleganza british, curiosità, attenzione al nostro patrimonio artistico, cultura manageriale, dvd dei Monty Python (ah, rieccoli!).

Di Sarri, invece, ho amato ed amo – banalmente – il gioco. Credo che chi come molti di noi non ha potuto vivere la mitica stagione di Vinicio, non ne aveva mai visto di tanto bello sul suolo del San Paolo, nemmeno ai tempi di Diego. Non è poco, anche se, è vero, l’estetica non è tutto, come ci ripetono in queste ore in tanti, e va almeno conciliata con l’etica della vittoria, la volontà di vincere.

Non credo però che chi coltivi l’ideale e la prassi del bel gioco – quello che, diceva Rafa, riempie gli stadi altrove, ponendo di nuovo un problema serio al sordo mondo del calcio italiano – metta necessariamente in secondo piano l’attenzione ai risultati. Che, anch’essa, non può juventinianamente prevalere su ogni altro aspetto (lo dico nel rispetto di molto di quello che potremmo definire “juventinismo”, ma ci arrivo tra un po’).

Essere cholisti vuol dire essere juventini

In queste ore ci si scopre un po’ tutti “cholisti” (e secondo me, ripeto, juventini), ma tra un vincere nella bruttezza ed il “beautiful losers” che si imputa, sbagliando, a Sarri ci sarà pure una terza via.

Lo stesso Sarri, dopo il pareggio di Sassuolo, ha attribuito alla sua squadra una mentalità “adolescenziale”, e quelle parole mi pare riecheggino fortemente quelle di un Benitez che più volte ebbe ad evidenziare una carenza di cattiveria nel suo team (per dire: il problema non nasce oggi).

Allora, più che la sfuriata di quell’Arrigo Sacchi che, oltre ad essere padre indiscusso qui da noi di un giocare “propositivo”, può ritenersi il vero maestro del tecnico toscano, ci soccorre una bella intervista di Gianni Mura su Repubblica a Gasperini da cui estrapolo due passaggi che mi paiono significativi.

Alla Juve sono grato perché è stata una scuola di vita, perché mi ha trasmesso valori che oggi possono sembrare anacronistici: la disciplina, il senso di appartenenza, il rispetto dei ruoli e degli avversari.”

Mio padre e tutti gli zii parlavano dialetto, io e i miei cugini no, forse pensavamo che esprimersi in italiano fosse una sorta di promozione sociale. Sbagliavamo.”

Quel che manca al Napoli non è per insufficienza di Sarri

Disciplina. Senso di appartenenza. Dialetto.

Qui c’è tutto ciò che manca al Napoli, ma non per insufficienze di Sarri, che come tutti gli allenatori, anche i più grandi, e Sarri lo è, sbaglia e può sbagliare anche molto (per me Gabbiadini se lo porta sulla coscienza anche un po’ lui, come Hamsik e Jorginho dovettero la loro involuzione a Rafa).

Il Napoli è come ce lo ritroviamo, incapace di cattiveria e cinismo, perché così è Napoli.

Ciò che manca alla squadra è ciò che manca alla città, a dispetto di una percezione comune plasmata dal giornalista collettivo che ci racconta di una metropoli solo violenta, spietata, illegale nel dna, brutale.

Per l’amor di Dio, nessuno nega che vi sia anche questo, Napoli è una megalopoli postmoderna dalle mille sfaccettature e l’abbrutimento di vaste aree della città e della popolazione abbandonate a sé stesse, così come il fenomeno delle baby gang, è uno dei prodotti più vistosi dei processi di modernizzazione (una modernizzazione solo subita) malamente guidati, senza capacità di dialogo con ciò che in Napoli era già moderno prima del moderno, illuminista prima dell’illuminismo, europeo.

Buoni sì, fessi no. Ora, invece, lo siamo.

Per paradosso, un altro esito della italianizzazione (ed americanizzazione) di Napoli appare essere un palese infiacchimento che assume le sembianze di una sorta di buonismo (a volte anche ipocrita, penso agli applausi a Cannavaro, uno che facemmo a brandelli, come pure all’estate in attesa di Cavani, uno che fischiammo).

Intendiamoci, “buoni” lo siamo sempre stati, contemplativi, spirituali e carnali ad un tempo, non – attenzione – estranei alla “cultura del fare” come ci vorrebbero leghisti e paraleghisti, ma meno inclini ad un mero fare senza pensare: “città d’amore”, diceva uno che in gioventù mi faceva storcere il naso, che vi farà forse storcere il naso ora, ma che in questi giorni appare molto citato sul “Napolista” e, comunque, ecco, vi attendo al varco sulle vostre bacheche facebook quando concluderà – speriamo tardissimo – il suo transito terreno portandosi via un po’ di quell’ironia che in città, almeno nel mondo della “cultura”, comincia a scarseggiare.

Buoni lo siamo sempre stati, fessi no. Ora lo siamo. Fessi. A volte tristemente macchiettistici.

La perdita del dialetto

Torno all’intervista a Gasperini, uno che dovrebbe allenare la Nazionale e invece no, uno che ha un suo mondo non meno ricco di quello del maestro toscano. Tre le parole chiave, dicevamo: disciplina, senso di appartenenza, dialetto.

Il dialetto è patria e a Napoli nella produzione culturale resiste al più su facebook, dove è scritto quasi sempre male, e tra neomelodici e rapper, dove ancora continua a svolgere la sua funzione vitale, cannibalesca, mentre su un versante di elaborazione più alto le ultime resistenze le troviamo, paradossalmente, nei “modernizzatori” Troisi e Pino Daniele, via via affievolendosi (Almamegretta, Avitabile).

Napoli sembra non avere una sua identità

La perdita di una lingua ha a che fare con il senso di appartenenza. Negli anni in cui riaffiorano identitarismi di vario genere, la città appare non avere una sua identità. Napoli, è vero, è stata sempre una città con un’identità particolare, aperta, “porosa”, disponibile ad accogliere e anche mangiare, metabolizzare tante cose, pure assai differenti. Ma anche questa identità “anti-identitaria” va perdendosi. Ciò a causa di tante cose. Potremmo citare la questione dello spazio comune, ché quello di Napoli ormai è un “non spazio” a causa della conurbazione caotica affermatasi negli ultimi sessanta e più anni che rende assai difficile l’esercizio della mediazione politica, in danno della stessa coesione sociale. Potremmo dirne tante.

La subcultura televisiva di Made in Sud e dei Siani

Fatto sta che Napoli, da sempre carente non di pensiero (anche superiore) ma di potenza (collettiva), di autodisciplina, compattezza, ora lo è però di più e lo è anche di identità, mentre a iosa produce – e vende – un surrogato di essa, folclore (anche la narrazione del male lo è). Ci sono sacche di autentica, contaminata, nuova identità solo nella base della città, ma esse non riescono a trovare non solo un riconoscimento ma una loro espressione culturale mentre dominante è una subcultura televisiva che è quella dei comici di Made in Sud, dei Siani, dei giornali scritti dai dirigenti scolastici. Sulla borghesia “illuminata”, stendiamo un velo pietoso.

La mancanza di un tifo adulto e di un tifo bambino

Che c’entra tutto ciò con la squadra, con l’assenza di cattiveria? C’entra, c’entra.

Che manchi un tifo adulto, capace di fare lo “spalla a spalla” e supportare i propri beniamini sempre e comunque, davvero “al di là del risultato”, lo ha scritto più volte il direttore della testata, come anche che certa stampa locale remi contro da sempre. A mio modesto avviso manca pure un tifo “bambino”, capace di emozionarsi col gioco spettacolare di Sarri (ed infatti abbiamo lo stadio semivuoto).

Il tentativo dell’industria di creare una sfera consacrata allo sport completamente estranea al lavoro, alla vita della gente, collocandolo in una specie di paese delle meraviglie, una sfera dell’evasione totale, in realtà è riuscito solo in parte, lo sport, specie quello del calcio, continua ad essere influenzato da quanto accade fuori dai luoghi dove viene celebrato.

“Area 18” di Fontanarrosa

E mi viene allora in mente un romanzo fantastico dell’umorista argentino Roberto Fontanarrosa (da Rosario, la città del “Che” e di Messi) che si intitola “Area 18”.

La storia narra, in uno stile sarcastico ma anche magico, di una squadra di calcio, palesemente ispirata ai Cosmos, al soldo di una multinazionale americana, che va a giocarsi la vittoria in sfida secca contro l’agguerrito team nazionale di un piccolo stato africano immaginario, il Congodia. La faccio breve – il romanzo è bello e vi invito a leggerlo, per cui non voglio spoilerare- non senza dirvi prima che nel Congodia il calcio svolge una funzione mitica nonché di surrogato della guerra e naturalmente di strumento di coesione della comunità. Ed infatti la partita che si terrà nello stadio di Bombasì, la capitale del Congodia, scavato dentro un vulcano attivo, sarà una vera e propria guerra, con tanto di rotture di arti, sangue, caduti…

I quattro stadi più caldi del mondo

Anche qui, che c’entra col Napoli e con Napoli?

Lo spiega meglio della mia pippa la descrizione che dello stadio Bombasì fa ad un certo punto del libro il tecnico degli americani, il teutonico Muller, durante uno dei durissimi allenamenti del suo gruppo:

«Quello che potrebbe preoccuparmi» precisò appoggiando le sue natiche magre contro la scrivania «è il clima che si respirerà fuori dal campo. Ho informazioni molto precise a questo proposito e so che lo stadio Bombasì può creare un clima emotivo, un ambiente di tensione e pressione con cui nessun altro stadio al mondo può competere. Lo stadio del Napoli, in Italia, o il Maracanã in Brasile, o quello del Boca Juniors o del Celtic a Glasgow non possono essere neanche lontanamente paragonati al calderone che diventa il Bombasì in queste occasioni. Dovete essere pronti. Dovete tenerlo presente giorno e notte. Conoscere esattamente quello che vi aspetta al Bombasì Stadium quando calpesterete il suo prato.»

Si, avete letto bene, il romanzo cita il San Paolo tra i quattro stadi più caldi del mondo.

Si era nel 1982…

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