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La straordinaria conferenza di Marieke Vervoort sulla vita e sulla morte

L’atleta belga, medaglia d’argento alle Paralimpiadi, ha parlato di eutanasia. Sembrava Kirillov protagonista de “I demoni” di Dostojevskij.

La straordinaria conferenza di Marieke Vervoort sulla vita e sulla morte

“L’eutanasia mi dà una sensazione di sollievo; la sensazione che, qualunque cosa accada, ho le carte nella mia mano”. E’ uno dei passaggi chiave di una delle più straordinarie conferenze stampa tenute da un’atleta a valle della vittoria di una medaglia. Marieke Vervoort, stella delle Paralimpiadi di Rio, ha appena sollevato l’argento ottenuto nei 400 metri T52. Soppesa le sue frasi, le singole parole, le vaglia e poi inonda lentamente una platea che vede in lei uno spirito incarnato. Ha sorriso, come quando a Londra stabilì il record e iniziò a gridare fino all’ultimo refolo di fiato in corpo. “Se non avessi queste carte avrei già commesso un suicidio”, perché la malattia che la scava ferocemente dall’interno non inverte la direzione, è un dolore inestinguibile che non cede, anzi si rafforza come una slavina, mostra le zanne e intimorisce.

Si ha l’impressione di ascoltare una sacerdotessa, una donna tornata temporaneamente dall’inferno, non per conservarne il privilegio ma per condividerlo con dei fratelli e delle sorelle. E chi ascolta lo fa nella coltre di silenzio che si tributa a una liturgia, il silenzio di quando la parola giusta neppure la si cerca perché si sa di non poter raccogliere in bocca il punto di vista di Dio, come cantava il poeta genovese. “Se mi aveste visto anni fa, facevo disegni bellissimi” che ora sono finiti al di sotto del livello di galleggiamento, annegati in uno strazio di carne che tormenta.

Nella voce di Marieke c’è la lirica di tutto lo sport. Che oggi come sempre non trova ragione – a che serve? A che serve apporre sigillo su sigillo, dolore su dolore, sacrificio su sacrificio, se tanto sudore a nient’altro vale se non a un disco di metallo da mostrare penzolante dalla tua mano, nello stesso giorno in cui con l’altra stringi le carte della tua morte firmate di tutto pugno? Risposta non ce n’è, né la donna l’accenna. Si limita a un autentico inno allo sport e al suo senso di immediatezza, canta il teatro in cui tutto viene restituito di prima intenzione, il luogo ove tutto si programma affinché ad ogni cosa sia concesso di sfuggire a qualunque programma. Lo sport è l’attimo – “godete di ogni momento” dice Marieke, e non è di quelle banali frasi di circostanza. È il segno del tempo che trafigge la sua carne, e la carne di tutti, sui suoi arti che partecipano, seppure inerti, alla danza di gioia che la travolge aldilà del traguardo che lei aveva disegnato per terra, con le stesse dita usate per firmare la propria dolce fine.

Lo sport è la grande metafora della morte. Le gira attorno. La racconta. È Marieke ma sembra Kirillov, l’uomo cui brillano gli occhi nel romanzo I Demoni di Dostoevskij e che ha in animo di togliersi la vita per liberare gli uomini in un gesto che ha qualcosa della disperazione e la lucidità della giovane belga. “La vita è dolore, la vita è paura e l’uomo è infelice. Ora tutto è dolore e paura. Ora l’uomo ama la vita, perché ama il dolore e la vita. Colui che vincerà il dolore e la paura, sarà lui Dio. Dio è il dolore della paura della morte. Chi vincerà il dolore e la paura, quello diventerà Dio”. Alle parole allucinate del russo, che camminano sul sottilissimo confine ultimo dell’uomo, Marieke ha aggiunto con garbo la profondità abissale della passione: “Believe you can” continua a dirsi. La paura della fine le è passata, confida, perché l’ha riscritta lei e ce l’ha stretta nel palmo, come fece Kirillov. Ma oltre a quella carta bollata Marieke stringe la medaglia, frutto del dolore che lei ha scelto di aggiungere a quello ingiusto ed arbitrario che le è toccato scontare.

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