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L’addio di Conte e la Nazionale come un tram chiamato desiderio

Nessun ct ha avuto stampa tanto favorevole. Nonostante il contratto col Chelsea e i risultati non proprio esaltanti. Ha anche “promesso” di tornare.

L’addio di Conte e la Nazionale come un tram chiamato desiderio

A fine partita, nelle parole di giornalisti e commentatori, più che per la sconfitta ai rigori e la conseguente uscita dagli Europei, la tristezza è per il commiato da Antonio Conte. Si badi bene alla preposizione: non “di Conte”, ma “da Conte”.

Non tanto per le sorti della nazionale, quanto piuttosto per un senso di privazione personale, sembrano dolersi gli addetti ai lavori, innamorati del personaggio più che del professionista.
Ma lui rassicura tutti… ed ecumenico, subito dopo la sconfitta, annuncia urbi et orbi: tornerò!

E noi qui sospiriamo, gementi e piangenti, in questa valle di lacrime, aspettando il ritorno del messia dopo la gita in Terra d’Albione (con buona pace del povero Ventura cui toccherà tenergli caldo il posto). «Non è un addio, ma un arrivederci», ha detto Conte, dando per scontato che, quando vorrà, gli basterà tornare e troverà le porte aperte. E nessuno che osasse «Scusi, mister, ma guardi che la Nazionale mica è di sua proprietà… non è un tram da cui si scende quando serve per poi risalire alla fermata successiva. Visto che lei ha deciso di abbandonarci e tralasciamo i motivi) perché noi dovremmo riaccoglierla quando si sarà stancato del Chelsea?» Niente. Nessuno ha parlato. Ma non è una sorpresa.

Il nostro fuoriclasse

Più che per i risultati sportivi, l’ormai ex commissario tecnico della Nazionale Italiana passerà alla storia come il più idolatrato dalla stampa nel suo periodo alla guida degli Azzurri. Neppure i campioni del mondo Lippi e Bearzot, neppure Sacchi, Zoff e Prandelli (che ci regalarono una finale) hanno ricevuto durante la loro esperienza da ct un tale plebiscitario consenso come Antonio Conte. In questi due anni – e in particolare nell’ultimo mese e mezzo – è stato tutto un susseguirsi di lodi, complimenti e applausi, a mio giudizio largamente esagerati, considerando che Conte ci ha fatto vedere in due anni tanta grinta, tanto spirito di squadra, tante frasi ad effetto, ma poco gioco e pochi risultati. La frase più ascoltata era: «Il nostro fuoriclasse è Antonio Conte». Il fuoriclasse alla fine ci ha portati non oltre i Quarti di Finale di un Europeo, regalandoci un’unica grande soddisfazione: il 2-0 alla Spagna. Cesare Maldini, protagonista nel ’98 di un cammino analogo con una squadra giovanissima (eliminato ai Quarti di Finale, ai rigori, dai Francesi padroni di casa e futuri campioni del mondo) fu spernacchiato e sostituito a furor di popolo. Stesso destino per Donadoni, pure lui tradito dai rigori (dopo aver condotto agli Europei 2008 una squadra appagata dal Mondiale) e pure lui accompagnato alla porta senza tanti complimenti.

Certo, il tasso tecnico delle ultime generazioni di calciatori italiani non è eccelso, ma Conte non è che abbia fatto chissà quale miracolo come si affannano a raccontarci i commentatori tv. Se dovevamo affidarci a difesa e contropiede, allora andava bene anche il vecchio Edy Reja, che 10 anni fa si affacciò con lo stesso modulo alla serie A con il Napoli. Oppure Mazzarri, cui Conte si ispirò nel modulo in quel famoso 3-3 al San Paolo che lo lanciò verso il primo scudetto bianconero e da cui Conte ha pure copiato il refrain: «Se i campioni del mondo cambiano modulo per affrontarci – ha detto in conferenza stampa il ct – è segno che ci temevano», le stesse identiche parole per cui il povero Walter venne preso in giro per mesi. E di certo andrà bene pure Ventura che, a differenza di Conte, non potrà contare sul blocco difensivo juventino (ormai consunto) né sugli ossequi di giornalisti e commentatori. Anzi, la sensazione è che ora Ventura diventi la vittima sacrificale (complice un girone di qualificazione al Mondiale che si annuncia tostissimo) e che un suo eventuale insuccesso diventerà il pretesto per il ritorno di Conte.

Una scena già vista

La scena è la stessa di dieci anni fa, con la staffetta Lippi-Donadoni-Lippi. Ma ci sono un bel po’ di differenza. Tanto per cominciare, Lippi aveva appena vinto un Mondiale, dando alla squadra solidità ma anche gioco. E poi andava via per stanchezza non per soldi. E scelse di stare fermo, non si accordò con una squadra di club 6 mesi prima della fine del biennio, come ha fatto Conte. Lippi lasciò da vincitore, senza strali, nonostante avesse diversi sassolini nelle scarpe. Conte va via da perdente ma alla prima conferenza getta la croce su Lega e Federazione, senza alcun accenno ad eventuali errori propri, nessun esame di coscienza, anzi con dichiarazioni roboanti («Lascio una macchina da guerra»). Ben altro stile quello di Prandelli, che due anni fa si assunse tutte le responsabilità, anche quelle non sue.

Qualcuno, in Federazione, dovrebbe intervenire per mettere i puntini sulle “i”. E magari spiegare a Conte che la Nazionale non è un tram.
Ma la sensazione è che – visto l’andazzo – ce lo ritroveremo di nuovo in azzurro, fra qualche anno.

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