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Insigne mi ha insegnato a tifare per il nemico

Insigne mi ha insegnato a tifare per il nemico

Ho un ricordo molto sbiadito della Nazionale dell’82, un’immagine che non mi appartiene, involontaria: mio padre steso sul divano, da qualche parte mio fratello e mia madre. Io non so dove fossi, ero l’alone di un bambino. Davanti a noi una enorme Nordmende bianca, di quelle che avevano la sicura sul tasto dell’accensione, il capo famiglia unico custode di quell’oggettino trasparente che decideva le sorti della condotta di ciascuno. Dell’86 ricordo i suoni: “Che ha combinato, mamma mia” e mio padre che spiegava a mio fratello qualcosa che suonava così: le Falkland. Quella guerra si svolse nell’82.

Nel ’90 non capii niente. Ricordo solo di parenti adulti che parlavano malissimo di Luca Cordero di Montezemolo, dei nuovi tunnel di fuorigrotta, di obelischi dal dubbio gusto e del San Paolo che non era più San Paolo. E poi uno spagnoleggiante figlio di puttana. Il San Paolo non era più il San Paolo.

Nel ’94 tifavo Brasile.

Anche nel ’98. Odiavo la Francia, e senza ascoltarmi, di nascosto da me stesso amavo Zidane, un giocatore della Juve.

Gli europei, ad essere onesto, sono entrati in modo massiccio nella mia vita, quando ho cominciato a tifare Italia. Con la stessa onestà, devo dire che la Nazionale mi ha chiamato a distanza, posso parlare sinceramente di quello che mi appare tutt’oggi un destino che mi ha rapito. La prima partita per le qualificazioni degli Europei del 2000 la vidi in una palestra, avrei dovuto fare degli esercizi, ma già fumavo e un nano, nerbuto e muscoloso istruttore di nome Leonardo mi portò un caffè, e fumammo tanto. E vedemmo la partita.

Io mi resi conto di amare Zoff e Totti.

Da allora la mia Nazionale è l’Italia. E il 2006 l’ho goduto come poche cose, comprai Marlboro per la finale.

Prima di proseguire, tengo a sottolineare che non voglio e non posso insegnare niente, che questa non è un’opinione. Nel calcio, in realtà dappertutto, le opinioni non esistono. Quello che sto raccontando, sinceramente, è una cosa che non mi vede mai protagonista, al contrario sono quello che aspetta l’eroe che lo salvi, quello che subisce qualcosa. Io non ho mai scelto la squadra per cui tifare, è sempre stata la squadra a scegliermi. È stato Maradona a scegliermi. Il calcio l’ho amato solo quando l’ho giocato, gli articoli li ho letti quando erano articoli e non quando erano formazioni con la pretesa di essere pungenti.

Gli articoli che ricordo con più piacere sono quelli di Baricco su un Real-Barcellona con uno straordinario Zidane che segna al volo, immerso in un’aurea divina piena di volti marsigliesi e berberi, e uno di Cannavò per la conquista del mondiale di formula uno della Ferrari e di Schumacher dopo 21 anni di attesa.

Il destino arriva sempre ad un ombelico dal quale si può scorgere tutto il cosmo.

I protagonisti sono sempre due: Italia e Francia.

In Francia ora ci vivo e guardo l’Italia sotto la tour Eiffel. Non c’è traccia di enormi plastiche bianche con sicura per l’accensione, non ci sono padri a cui sfruculiare il neo sulla fronte, ci sono due maxi schermi, c’è un adulto steso su un campo sintetico, ci sono irlandesi ubriachi ovunque, simpatici e corretti che lanciano pinte di plastica in aria, come a dire: ” Ma lo sapete come è fatta una pinta?”.

E poi ci siamo io e lei. Mi rendo conto, guardando Zaza e Conte che sto tifando per il nemico e che non posso farne a meno. Non lo so il perché.

Quando negli ultimi minuti vedo apparire un profeta, un mio amore, mi commuovo, sul serio, è come se su quel maxischermo appaia il mio migliore amico. È apparso Lorenzino, lì c’è Insigne.

Lancio un urlo disumano, quando sento il telecronista dire “le napolitaine”, urlo “je suis napolitaine” e un irlandese mi sorride e alza un pugno e dice “Italy”. Detto tra noi quei leprecauni hanno seguito il ritmo e applaudito Mameli.

Perdiamo nonostante Lorenzo, e dico nonostante perché in pochi minuti Egli ha fatto quello che non ha fatto l’Italia nel resto della partita.

Oggi leggo le sue dichiarazioni.

“Faccio quello che dice il Mister, non importa quanto giochi, siamo uniti, il mister mi tiene in considerazione, ci tiene uniti.” Ma chi Conte? Uniti Tu e Zaza?

Insigne mi ha sempre insegnato qualcosa, ricordo di una partita l’anno scorso, la seguii in streaming come al solito, da solo a Parigi, quando uscì Lorenzo mi alzai a fargli l’applauso. Da solo.

Ricordo come è cambiato, come ha pianto quando ha trovato il gol, o il gol ha trovato lui? Inginocchiato a terra. Come ha imparato. Ricordo anche i tanti che gli davano del buffone quando faceva il suo tiro a girare dai limiti dell’aria.

Lorenzo è lì, con Conte e Zaza, quello che ci ha fatto il gol quella sera maledetta, alla fine. E Lorenzo si sente unito a loro, Lorenzo li segue e fa il suo dovere, meglio degli altri.

Lorenzo è Napoletano, Italiano e in nazionale.

In quella incredibile atmosfera, in questa incredibile città che è Parigi, che dopo due attentati e scontri sociali ha organizzato una fan zone sotto la torre, sotto uno dei suoi simboli (tutto perfettamente riuscito) in mezzo a tifosi di tutta Europa, con cui ho preso la metropolitana pacificamente, Lorenzo mi ha spiegato che far parte di un gruppo significa tifare per il nemico qualche volta. E che bisogna scegliere se essere animali civili, nel senso di accettare il senso e la difficoltà dello stare insieme, o se continuare per la propria strada.

Io davvero non giudico nessuno e non m’importa cosa il mio vicino scelga di tifare, ma sono stato felice commosso orgoglioso di vedere entrare Insigne, sotto la torre, da straniero a Parigi, e urlare io sono Napoletano, perché Lorenzo mi ha insegnato che questa frase ha senso solo se sono Italiano e imparo anche, quando dovuto, ad alzare il pollice agli avversari.

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