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Giulierini, il Sarri del Museo Archeologico: «È percepito più dai turisti che dai napoletani, diventerà una piazza di Napoli»

Giulierini, il Sarri del Museo Archeologico: «È percepito più dai turisti che dai napoletani, diventerà una piazza di Napoli»
Il direttore del Mann Paolo Giulierini

Arrivato a Napoli da una piccola realtà toscana, è stato accolto con qualche titubanza e accompagnato da chiacchiericci scettici. Sembra la storia di Maurizio Sarri e invece è quella di Paolo Giulierini da otto mesi direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Mann) dopo l’esperienza a Cortona. E dopo otto mesi, proprio come Sarri, ha saputo rispondere ai dubbi e confutare le perplessità senza salire in cattedra ma conquistando innanzitutto la fiducia di chi lavora con lui al museo.
Dopo un incontro/scontro col Napolista, in cui galeotta fu una mosca, il direttore aretino ha dimostrato grande disponibilità anche con noi nel mettersi in gioco, nell’aprirsi al confronto e nel rispondere alle critiche. Lo abbiamo incontrato passeggiando tra le statue del Mann avvolto dalla tranquilla operosità del martedì di chiusura.

Camminando tra i Batman e l’Ercole Farnese si avverte il rispetto, ma anche la confidenza, che il personale del museo ha nei confronti del suo direttore.

La sua carta vincente è stata quella di creare un rapporto umano all’interno del Mann, con il suo staff prima ancora che fuori. È riuscito a motivare i suoi collaboratori, a dare il massimo e ad andare oltre i propri compiti professionali per prendersi realmente cura del museo.

«Passare dal rapporto gerarchico ad un rapporto quotidiano che si basa sul rispetto e sul dialogo credo che sia un punto fondamentale e non un segno di debolezza bensì di grande capacità organizzativa».

E qui il paragone con Sarri è ancora più calzante, entrambi sono riusciti ad affiatare una squadra che non avevano scelto ma che si sono trovati a dover gestire, arrivando, come qualcuno diceva, da una piccola piazza ed assumendo il ruolo di condottiero in una grande realtà.

«Credo che il segreto sia nel rispetto e poi nel saper cogliere in ogni persona gli elementi per cui si caratterizza e valorizzare gli aspetti positivi di ciascuno. In secondo luogo si deve stimolare una certa autonomia. Il direttore monitora e controlla, ma è fondamentale che si creino tante piccole unità in grado di assumersi le loro responsabilità. Io preferisco dettare le regole, dare degli obiettivi e rivedersi a fine mese».

Una sfida nella sfida, dare libertà non significa correre dei rischi?
«Se non ci si fida del proprio personale sì, se non lo si gratifica e non lo si stimola a crescere bisogna avere paura. Ma se si è preparati, no. Dal punto di viste gestionale non ho paura. La preparazione consiste nel coinvolgere di volta in volta le figure professionali utili, questa è la capacità del manager dei beni culturali, non possedere in sé tutte le capacità. Bisogna avere la capacità di creare squadre, solo Leonardo da Vinci aveva in sé tutte le competenze».

Il passaggio al Mann, dopo l’esperienza al Maec di Cortona in qualche modo l’ha intimorita?
«È stata una sfida per i rapporti di grandezza ma, al contrario di quanto si possa immaginare, nelle realtà medio-piccole si sperimenta di più. Tutto è più gestibile e i tempi sono più brevi, così puoi permetterti innovazioni per il personale come per le tecnologie. A Cortona avevo solo personale laureato, non avevo la figura del custode ad esempio, poche persone che racchiudevano in sé più capacità. In musei grandi, dove c’è una forte sindacalizzazione, alcuni aspetti non sono stati sperimentati. Dopo aver preso coscienza di ciò che abbiamo, sto cercando di trasferire al Mann una parte di queste esperienze pregresse. A breve presenteremo il nostro piano strategico, sarà la nostra Bibbia per i prossimi quattro anni».

L’aria nuova soffia non solo all’intero del museo ma anche fuori, si avverte la creazione di un rapporto umano sui social e nelle aule universitarie dove Giulierini ha tenuto diversi interventi. Un modo nuovo di porsi come biglietto da visita del Mann e delle sue ricchezze per avvicinare le persone?
«Prima il compito di un direttore si limitava alla gestione del palazzo, ora il palazzo deve uscire per strada e creare situazioni favorevoli per diffondere i contenuti del museo. È una politica dinamica».

L’umanizzazione del museo come processo di avvicinamento verso il grande pubblico, come le grandi aziende straniere insegnano. La Apple, ad esempio, nel mondo ha il volto di Steve Jobs.
«Esatto, perché non ci si avvicina al palazzo ma alle persone. Bisogna avere un contatto con il pubblico, anche attraverso i social. E, si badi bene, non è mania di protagonismo. Poi c’è il secondo step del progetto di umanizzazione, che passa non più per il direttore ma attraverso i testimonial. Erri de Luca ad esempio uscirà con un volume in parte ambientato qui. Vogliamo che l’edificio risponda a dei volti settore per settore come avviene in tutti i grandi musei; la gente ha bisogno di riferimento umano, altrimenti restiamo un istituto dello Stato. E qui l’aver lavorato in una realtà più piccola aiuta, rappresenta un’esperienza umana diversa e ricca. Il patrimonio del museo sono le persone che ci lavorano».

Dopo poche settimane dal suo arrivo parlò del Mann come museo di una grande capitale, quella del Regno delle due Sicilie.
«Certamente, perché fino al 1957 qui erano conservate anche le collezioni di Capodimonte. Alla base dell’idea di questo museo dev’esserci il messaggio che è l’espressione del regno borbonico e della capitale di un regno. Ma non basta. Non si può comprendere l’archeologia vesuviana, quella di Pompei, la più nota al mondo, senza un passaggio al Mann, perché tutto ciò che è stato ritrovato e recuperato lì è qui, sarebbe una visita monca. Dal punto di vista dell’archeologia classica, siamo il museo più rappresentativo al mondo: il British ha reperti di tutti i luoghi dove l’impero britannico è stato presente, ma questo è un museo che si concentra sul mondo romano e greco».

Come viene percepito dai napoletani il Museo archeologico?
«Nell’imaginario è “’o museo”, tradotto il museo, non ha una vera è propria identità. Negli anni ’80 e  ‘90 c’è stata una forte espansione di Capodimonte grazie a mostre importanti come il Caravaggio, e un regresso di questo museo in termini di veicolazione della propria immagine tant’è che oggi la cittadinanza non lo percepisce. Lo percepiscono gli stranieri e le scuole, molti hanno difficoltà. Uno dei tratti su cui sto lavorando è creare una strategia di accoglienza, vanno letti in questa chiave l’apertura dei giardini e il progetto della caffetteria. L’obiettivo è trasformare il Mann in una nuova piazza in cui ci si incontra».

A Napoli un esempio di museo virtuoso è la Cappella di Sansevero.
«Sono due realtà completamente diverse. Innanzitutto bisogna pensare che anche il turismo viaggia per icone ed è evidente che un museo di quel tipo ha una grande capacità attrattiva e in più può essere visitato in pochissimo tempo. Il Mann non è funzionale ai pacchetti turistici, richiede un tour di un paio d’ore. Ma non voglio essere banale, anzi sono totalmente onesto dicendo che dal censimento fatto quando sono arrivato al Museo mancava un sito internet, depliant interni e le assicuro che non troverà brochure del Mann in nessuna struttura ricettiva di Napoli. Insomma, mancano le strutture di base per farsi conoscere e le strategie per veicolare l’immagine del museo nelle metropolitane, negli aeroporti, nelle stazioni. Per non parlare dell’inserimento nei pacchetti turistici dei tour operator e delle navi da crociera. Sono profili che non sono mai stati curati perché finora i musei, a differenza dei privati come Cappella di Sansevero, non hanno mai badato al profitto tanto i debiti venivano coperti da Stato. Sono d’accordo che i musei non devono diventare aziende o fondazioni, però un minimo di crescita è necessaria».

E qui torniamo all’annoso dibattito sulla presunta svendita della cultura, come pure qualcuno ha sostenuto e sostiene.
«Per carità, le risorse che riusciamo a recuperare sono funzionali alla crescita e alla valorizzazione del Museo. Non per allestire spettacoli jazz ma per fare manutenzione, creare nuovi allestimenti, mostre e soprattutto per fare. Senza soldi, la ricerca non si fa. La ricerca deve essere sostenuta».

Qual è l’obiettivo del suo mandato quadriennale al Mann?
«Il Mann deve contribuire a portare alta l’immagine di Napoli nel mondo e deve ricondurre la città a un’immagine positiva. Con le sue mostre, il Mann può essere veicolo per portare il territorio campano in luoghi importanti come Tokyo, Singapore e New York. Napoli deve riappropiarsi del museo, il nostro è un invito a tutti per venire a trascorrere qualche ora qui. La nostra idea è quella di un museo “pop”, nel senso di popolare perché vuole essere meno aristocratico di altri e aprirsi alla città»

Tornando verso l’uscita attraversiamo il giardino dove svettano Batman, proprio questo pomeriggio ci sarà l’incontro-dibattito dal titolo “Duel: con o senza supereroi”, duello tra oppositori e sostenitori della mostra “Giorni di un futuro passato” di Adrian Tranquilli. Lei, direttore Giulierini, da che parte starà?
«Sono decisamente a favore. Poi si può discutere della contaminazione, ma è indubbio che il museo debba essere un luogo ricettivo, con le antenne dritte, e non rinchiuso. Come mi diceva mio nonno, il mondo è grande. Bisogna misurarsi con gli altri per avere contezza del nostro livello. Posso tranquillamente affermare che noi abbiamo delle statue uniche ma è un concetto sterile».

Una pecca a Paolo Giulierini l’abbiamo trovata: il suo cuore rossonero da tifoso milanista. «A mia discolpa – dice sorridendo – posso dire che in Toscana, ad esclusione di Firenze, siamo divisi tra Milan, Inter e l’innominabile. Amo lo sport e lo pratico e proprio venendo da una conoscenza specifica, mi piace l’idea dello staff che si crea nelle società sportive, nelle squadre di calcio, è questo elemento che vorrei trasferire anche in ambito professionale. D’altro canto, se ci riflettiamo, nella civiltà greca non c’era differenza tra cultura e sport».

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