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No, io invece non difendo Gargano

No, io invece non difendo Gargano
 
Anzitutto perché il valore più profondo di un napoletano non esiste. Credere che basti abitare la stessa città degli altri per condividerne in maniera omologa i valori di una monolitica cultura significa scambiare il padre delle creature per l’istituto di credito dell’H2O.

L’avere una spiegazione più ragionevole, e meno rispettosa delle leggi del mondo (che forse non esistono), quando alcuni sembrano inebriati dai fumi della letteratura (che sogna l’esistenza di leggi desumibili dall’ermeneutica dei testi). Per dirla con Percy Allum, il napoletano sa che il suo mondo, che molti si ostinano a credere creazione di un dio unico, è piuttosto l’esito di un consesso di divinità contorte e spesso litigiose. E qui due parole sulla retorica del mercato: il disincantato, l’esperto, il fine conoscitore dei commerci dello spettacolo, dimentica che il mercenarismo solitamente si sposa con le strategie di promozione – o volgarmente marketing – in base alle quali sapersi vendere significa rendersi vendibile o almeno ipocritamente sapersi rendere credibile. Con le retoriche delle retoriche delle retoriche. Il giudizio, almeno quello distante (nel tempo e nello spazio), è borioso e fasullo almeno quanto le autobiografie di chi ancora è lontano dal trapasso.

Per una città che aveva il mare, per un porto di cineserie, un ricettacolo di gadget, di desiderantes con gli occhi spalancati su smartphone, il posto d’onore lo merita il medioman. Chi sappia dedicarsi completamente a una causa che non sia criticata, perché nel mercato l’etica non esiste; e che superficialmente gli appartenga, perché cosa veramente non ci appartiene, almeno superficialmente, in ciò che viviamo? Chi conosca il tempo delle cose e lo centellini bene; chi sia consapevole di non essere indispensabile; chi abbia tuttavia l’abilità di farsi pagare l’oro necessario, anzi di più, per la propria impresa, senza poi rinvangarla per emettere patenti e cristallizzare bocciature. Il futuro, come il passato, è degli accorti. Una sola bandiera, tutti expendables, transeunti e silenti. È un mondo ipocrita, si può sbagliare solo nella sostanza. E poi si svanisce, ma per davvero. Gargano non ha mai adorato lo sprawl metropolitano a Nord-Ovest di Napoli, dove il mare non bagna Domizia. Ed è stato inversamente ricambiato. Eppure due figli suoi sono nati all’ombra di Pinetamare. Forse non ci torneranno, pare. Nati per dovere e per emigrare.
 
NON difendo Gargano perché non ne ha bisogno: conosco tanti mercenari amici del qualunquismo, dell’ordine della medietà e dell’anarchia dei sentimenti. Rispettano il sacro rito del qualunquismo nello spogliatoio. Il tecnico toscano apprezzava. Come non capirlo, il piangina – sapeva che anche il sud del mondo pulisce i tacchetti e ascolta nelle orecchie la retorica dell’erba magiata per agonismo. E lo accetta non per misericordia, perché il calcio è spietato, un’amenità che conosce a fondo la vendetta. Ma per pura accettazione della evidenza delle cose.

E, ancora, NON lo difendo per l’immagine strepitosa da lui dipinta di una domesticità infantile che torna ludica accompagnata dalla play station, “che non può far altro che irrompere nei miei ricordi di bambino interista”. Il calciatore ed il bambino sono quasi coetanei. Il secondo impone la pubblicizzazione urbi et orbi della passione primigenia per i colori della società che guarda un po’ or ora lo ha assoldato. Forse immagina che gli amarcord della pubertà fortifichino la fede dei nuovi tifosi. Viene spernacchiato. Inevitabilmente. C’è del favoloso nel fatto che lo stesso Napolista svelante che, “per me, [il presidentissimo] rimane il migliore della nostra storia”, dinanzi al cinepanettone imposto dal figlio a Gargano e colleghi, si riscopra sodale con l’insofferenza per una società di calcio gestita come ditta familiare.
 
NON difendo El Mota perché è un giocatore tutto sommato forte, di poca ergonomia, di quasi nessuna pausa, di brillante abnegazione, ma poco furbo nella comunicazione. Con forma e costanza. Ha giocato sette stagioni intere con la spada di Damocle di un ingaggio totale percepito di oltre otto milioni di euro, credendo di meritare di più fin già da quando i campionati erano appena a metà, e non ne ha fatto mai silenzio e le piogge di critiche che ora lascia cadere su Aurelio e figli sono fuori stagione. Davvero un comunicatore coraggioso. E nell’intervista dimostra pure di averlo capito, quando dice che Hamsik invece “è una persona intelligente, dice poche parole, ma sono sempre giuste”. Ha molto grano in tasca, Gargano, ma poco sale in testa (e su questo siamo d’accordo).

Infine, NON difendo Gargano perché il politicamente scorretto è tale quando fa male, ma per far male deve cogliere l’attimo, quando siamo invadenti, quando pretendiamo di essere sempre simpatici a tutti e in ogni momento – mentre tu sei seduto a tavola e noi ti imponiamo un selfie – col nostro dialetto e non quando siamo lontani mille miglia. In questi giorni circolano in rete due minuti video di uno straordinario Aurelio De Laurentis, mirabile componente dell’indimenticabile squadra di tecnici che periziano lo stato dello stadio San Paolo. Spiegano, quei due minuti, perché il politicamente scorretto è spesso il passo che conduce allo scenario apocalittico della violenza quando l’invadenza è prossima, concreta e maleducata. Per scongiurare la quale dobbiamo imparare a mostrare i nostri sentimenti negativi subito, se non vogliamo finire con l’imporre agli altri giudizi ex-post che riteniamo universalmente giusti, pontificando attraverso un’antropologia ormai distante (che in realtà è stereotipia blasè). È il principio del non assorbire e del non tollerare. È ciò che rende un mercenario degno di essere fiero della sua non appartenenza.

Uè, Gargà, buona fortuna.

Mi manchi moltissimo, ma NON ti difendo.
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