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Via le ecoballe. «I nemici dell’agricoltura campana li abbiamo in casa»

Via le ecoballe. «I nemici dell’agricoltura campana li abbiamo in casa»

«Sì, è vero, se le portano via, speriamo non facciano altri sconquassi». Mi aspettavo salti di gioia da parte di Fabrizio Marzano che come confine della sua azienda ha avuto una muraglia di ecoballe, quelle di Taverna del Re, ma il pessimismo dell’imprenditore che ne ha passate tante e poi tante ha la meglio sulla buona notizia: «Vincono sempre loro, i burocrati, bisogna rassegnarsi e io mi considero un fortunato perché quando fu deciso lo scempio pretesi il rispetto di alcune condizioni e soprattutto di poggiare quella robaccia su piazzole abbastanza alte per far sì che il percolato non finisse nel terreno facendo danni. Dalle nostre parti devi negoziare il meno peggio e se ti va di lusso riesci a far crescere una barriera di piante che fa da schermo alla vergogna. Come abbiamo fatto noi».

Fabrizio Marzano, agricoltore che sa difendersi dal mostro, amministra con tre soci un’azienda di circa cento ettari, tra il Lago Patria e Giugliano, cioè in un ambiente che per millenaria vocazione è tra i più fertili per la produzione di ortaggi, fragole, angurie e,naturalmente, pomodori. «Da quest’anno abbiamo ripiantato i peperoni, ma prima di deciderlo ci abbiamo pensato su decine di volte per verificare la compatibilità con le altre produzioni già stabili. In agricoltura l’innovazione ha tempi e ritmi diversi e, come dico sempre, il miracolo lo hanno fatto quelli del Trentino da quando Melinda produce mele tutte uguali. Oggi l’etica paradossalmente è la vera innovazione, ma a me non va di considerarla tale. L’etica per me è un dovere, ma la politica è ancora lontana da questi traguardi. Faccio un esempio: il Piano di sviluppo rurale è molto buono per gli obiettivi che si è posto, ma ora occorre trovare il coraggio di saperlo applicare facendosi anche dei nemici, se è giusto. In Emilia Romagna lo hanno sempre fatto e questo spiega tante cose».

Problemi come questi, come stiamo rilevando in queste “picchiate” nella nuova agricoltura della Campania che si batte per conquistare fette di mercato più larghe ma deve guardarsi dai nemici in casa che alimentano il mostro della terra dei fuochi e del veleno nei pomodori, se ne incontrano ad ogni angolo della nostra area metropolitana. Ogni volta si riparte da capo come in un gioco dell’oca impazzito, l’importante è non scoraggiarsi. La nuova frontiera è la tracciabilità ma ottenerla è impresa scoraggiante. «Alle massaie che conosco dico sempre di non andare a comprare ai banchetti della Coldiretti, lì niente è tracciato. Da noi, ma non soltanto in questa azienda voglio dire, la tracciabilità, invece, è assoluta, abbiamo regole che applichiamo rigidamente e sfidiamo qualsiasi controllo in Italia e anche in Europa».

Accompagnati da Fabrizio Marzano da Antonio, uno dei giovani soci, e da Michele Pannullo (foto), ex presidente di Confagricoltura che ci ha fatto scoprire questa meraviglia, passeggiamo tra i viali costeggiando i terreni già seminati o pronti per esserlo. Nessuna meraviglia, questa è la ricetta se si vuole essere competitivi, oggi l’impresa deve rispettare le regole e imporsi alcuni requisiti. E, magari, come ci è capitato di vedere qui in un territorio in cui sono ben evidenti gli estremi della questione agricola, con gli opposti che fatalmente si toccano: chi gestisce la terra ha compreso, ad esempio, che è fondamentale creare anche un ambiente ideale, una sorta di isola, per attrarre e ospitare gli uccelli che erano andati via per l’insalubrità dell’aria e sono tornati a far sentire la loro voce. «Dobbiamo invogliarli a tornare, servono anche loro», dice Antonio che è orgoglioso di questa e di altre “conquiste”: i bagni in piena campagna – nel vecchio campo le piante si irroravano anche ma non solo con l’acqua – i cestini per i rifiuti e la cura per ottenere un ambiente ideale per ottenere la “sorbevolezza” – termine tecnico che definisce la gradevolezza del sapore – dei prodotti. Sentire il profumo della terra, che ancora è possibile far venir fuori nonostante il pessimo uso che del territorio è stato fatto è, dunque, possibile ma a prezzo di grandi sacrifici. Uno, tra gli altri, è l’attenzione per impedire che la “capezzagna”, cioè la terra impura che sorge ai margini dell’azienda, più vicina a contatto, cioè, con gli agenti inquinanti della strada, invada il terreno buono. «Per questa esigenza – dice Antonio – noi disponiamo di una squadretta di operai che raccoglie a mano la capezzagna con qualsiasi tempo».

Fabrizio Marzano ha relazioni commerciali con molti paesi europei ma la partita più ostica la gioca in casa. «Sono nato in questa terra e la mia famiglia risiede qui da tre generazioni. Sappiamo bene, ad esempio, che il territorio è nostro socio ma è peggiorata e ci costringe a chiuderci in noi stessi. Come fa la Nato a Gricignano. Le strutture tutt’intorno sono fatiscenti, il mercato di Giugliano non ha mai funzionato e quando mi è capitato di dover completare un ordine appoggiandomi ad un’altra azienda la merce aggiunta mi è tornata indietro». A fare i conti con questa realtà si rischia grosso ogni giorno e, a conti fatti, un minimo di certezza viene dalla collaborazione con gli operai rumeni. «Ne abbiamo 130, sono tutti collocati, li ospitiamo in ambienti sani e confortevoli, ma il malcontento cresce perché il caporalato si accaparra una parte del guadagno, quella parte che loro potrebbero mandare a casa per garantirsi la vecchiaia». Un bel guaio, azzardiamo, ma Fabrizio coglie al volo l’occasione che gli offriamo. «Parliamoci chiaro – conclude – se se ne vanno i rumeni noi siamo costretti a chiudere, loro non è che sappiano fare tutto, ma fanno bene un po’ di tutto. A differenza degli slavi che puoi impiegare solo come raccoglitori stagionali».

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