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Youth di Sorrentino mi ha fatto capire perché il Napoli non vincerà mai

Youth di Sorrentino mi ha fatto capire perché il Napoli non vincerà mai

Qualche giorno fa ho finalmente visto Youth, di Paolo Sorrentino.

La prima visione de La grande bellezza mi indispettì molto. Da profano che sa di esserlo, ebbi la sensazione che il regista avesse giocato a montare le mie più sotterranee aspettative per poi gettarmi, dopo un paio d’ore buone, nel burrone della inadeguatezza didascalica di una chiosa kitsch quanto la gondola souvenir di Venezia sul televisore trenta pollici. Mi sentii vittima di uno sfregio preparato a mente fredda, acuito dal fatto che i tedeschi attorno a me, al cinema di Berlino, sembravano invece in totale estasi – e d’altra parte, pensavo, concedi ad un uomo di Germania una colonna d’epoca romana e lo avrai conquistato senza neppure l’onore delle armi. Su quel film sono tornato spesso, in seguito. L’ho rivisto molte volte. Quel senso di incompletezza, quella sua natura sghemba la ritrovo ad ogni ritorno, ma nel tempo esso ha saputo parlarmi in molte lingue. La medesima problematicità l’ho riscoperta nell’ultima fatica del regista. Ma, forse essendovi preparato, non mi sono lasciato cogliere di sorpresa. Youth l’ho apprezzato opponendo minor spirito guerriero.

I film di Sorrentino viaggiano sul confine tra artistico e pacchiano. Alcuni critici non glielo perdonano – Fofi lo ritiene quasi robaccia, sebbene nel suo recensire dia la sensazione di voler tagliare con il machete un castello di sabbia. Ma il gioco c’è, senza dubbio. Cosa è arte e cosa è kitsch, e quanto un unico racconto può contenere entrambe queste realtà dell’esistenza senza implodere sotto il peso dell’incoerenza – quanto una stagione di calcio può racchiudere luce abbagliante e tenebra di una stessa storia, della medesima squadra? Me lo chiedo, tra qualche sigaretta e sulla musica di David Lang che fa da chiosa alla pellicola di Sorrentino dedicata alla giovinezza e per questo recitata da vecchi decrepiti, a valle dell’ennesima partita del Napoli che lascia amaro e un filo di disperazione, dopo mesi di bellezza fidiaca, quasi eccessiva nella sua perfetta completezza.

Sento per la squadra di Sarri di quest’anno lo stesso pungolo noioso della prima visione del film di Sorrentino. Un incedere prima totale poi singhiozzante quindi strozzato e tutti i desideri orfani. Non so perdonarmi la mia cecità. Quando mi indispettii per la critica tutto sommato lieve e sensata di Boban al cantare degli azzurri sotto la curva a venti partite dalla fine, o salutai con affetto fraterno le cene di Reina nel ventre della Sanità, o mi rassicurò la moka di Sarri ed il suo abbraccio col Pipita, mi diedero conforto i selfie nei pullman, o difesi le follie trasecolanti davanti al rosso dell’arbitro ad Udine. Sono stato cieco, è vero, eppure stasera, non so negarlo, penso che tornerei ad esserlo senza indugi, anzi mi caverei tutti e due gli occhi se servisse a rivedere il gol a giro di Higuain, o il 2-1 in casa contro la viola. Ed il pensiero mi disturba perché so che questa cecità è la matrice della nostra sconfitta, la carta bollata della nostra condanna.

In un dialogo in Youth, un monumentale Michael Caine confessa a Paul Dano: “La leggerezza è una irresistibile tentazione […] la leggerezza è anche una perversione”. Questa, lo confesso, credo sia anche la mia. Si, sono addolorato, anzi sono incazzato con me stesso, come lo ero alla fine della proiezione di Berlino, eppure confesso di cedere a questa perversione. Di accoglierla. Perché so di amare quanto fallisce e lo rivendico. Io non so neanche più se voglio vincere a tutti i costi, in questo altalenare tra la sublimità di un gesto tecnico, l’ennesimo goal pacchiano preso all’ultimo minuto e i ricordi e le immagini che questa spola tra alto e basso sanno generare in me. Non so se davvero voglio lo scudetto perché, per vincerlo, ci vuole il dolore della complessità e la pazienza di ascoltare chi la insegni mostrando come basti un diverso taglio di luce a rendere kitsch tutto ciò che noi riteniamo lo scrigno della nostra anima – quanto siano kitsch la pasta e patate, il caffè, i selfie e le urla sguaiate davanti al direttore di gara, quanto siano kitsch le nostre difese d’ufficio e i nostri juvemerda. In passato abbiamo avuto chi ce l’ha mostrato e non è finito bene. Col senno di poi, lo abbiamo rifiutato. Noi siamo questo coagulo inestricabile di retorica a buon mercato e sublimità eccessiva che ci dona vita ma non ci dà nessuna spinta. Ci rende vivi, ma non ci fa camminare, come il Maradona obeso col Marx tatuato sul dorso in Youth, che pensa al futuro. Al massimo ci farà arrivare secondi, con molti stenti. Napoli di oggi, e non solo, è desiderio e morte, come credo abbia detto proprio Sorrentino. O forse lo dicono i suoi film. O l’ho immaginato.

Leggo che proprio il regista, a chi gli domandò quando avrebbe fatto un film su Napoli, rispose che per farlo c’era bisogno di trent’anni di “altrove”. Tre decenni di Roma decadente e Svizzera innevata e poi chissà cosa. Diventare stranieri di se stessi. Probabilmente anche nel calcio bisogna scegliere cosa si è disposti a vedere ad ogni costo dagli altrove che ci siamo scelti, e cosa abbiamo testardamente scelto di tacere in nome delle nostre leggerezze. Sapendo che esse, in ogni caso, sono perversioni. Come il tifo.

Perdonateci. E forza Napoli.

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