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La fine del basket a Napoli

La fine del basket a Napoli

La comunicazione dell’esclusione dal campionato dell’Azzurro Basket Napoli rappresenta una nuova, grave ferita che imprenditori non in grado di gestire una società sportiva hanno inferto al basket italiano, creando l’ennesimo danno di immagine e credibilità a tutto il movimento, oscurando con la loro imperizia i sacrifici e la serietà dei tanti altri che danno vita alla realtà di LNP, che rappresentano la maggioranza. Napoli, intesa non certo come tifoseria e passione, ma come quell’habitat imprenditoriale che negli ultimi anni ha dato vita ad una sequenza infinita di fallimenti, ha con questo ennesimo tradimento azzerato forse anche il futuro della pallacanestro ad alto livello, in città, mancando di rispetto nei confronti dei tesserati di oggi, di quelli di ieri che hanno innescato lodi esecutivi e relative sanzioni, e soprattutto di chi, dalle tribune, aveva dato nuovamente fiducia ad una ripartenza della pallacanestro a Napoli”.

Non è la prima volta che ascolto parole dure come quelle di Pietro Basciano, presidente della Lega Nazionale Pallacanestro. Così come non è la prima volta che mi trovo a dover esprimere le mie sensazioni all’indomani dell’ennesima sconfitta annunciata della palla a spicchi all’ombra del Vesuvio. E probabilmente, visto che di base odio ripetermi, basterebbe la foto in apertura a sintetizzare tutto ciò che è stato detto e ripetuto, anche dal sottoscritto, negli anni passati.

Tuttavia, per mia (s)fortuna, il contesto storico in cui è venuto a concretizzarsi il sesto fallimento in otto anni, impone una seria riflessione su quello che è lo stato dello sport (inteso come qualsiasi altra attività diversa dal calcio) a Napoli e della sua reale percezione sulle masse.

Che città è quella che ha appreso, poco più di una settimana fa, la notizia che, per l’ennesima volta, la locale squadra di pallacanestro è stata dichiarata fallita (e, conseguentemente, esclusa dal campionato di categoria) per undicimila euro di contributi non pagati? Una città indifferente, ignara o, più semplicemente, in tutt’altre faccende affaccendata. Tipo manifestazioni, di piazza e sui social, per chiedere a gran voce la riduzione della squalifica di Gonzalo Higuain. Quindi calcio. Quindi l’ennesima dimostrazione di monodimensionalità della cultura sportiva locale che non riesce, non può o, forse, non vuole, guardare oltre ciò che esula ‘o’ pallone’. Perché è evidente di come, al di là di un precariato, che oscilla tra il tragico e il patetico, delle iniziative imprenditoriali che stanno alla base di questa situazione, tutto nasca dalla cronica incapacità di istituzioni e cittadinanza di apprezzare e cogliere le potenzialità di uno sport in continua crescita ovunque tranne che qui. Al grido di quel “vorrei ma non posso” che caratterizza Partenope in ambiti ben più importanti.

Un peccato originale amplificatosi, paradossalmente, in quel 2006 in cui la grandeur targata Mario Maione aveva illuso tutti, me compreso, che un’altra Napoli, affrancata dal calciocentrismo esasperato ed esasperante, fosse possibile. Certo, tutto era reso più facile da una delle più grandi squadre di sempre diventata protagonista di uno dei campionati più competitivi e belli in assoluto: la Fortitudo Bologna di un giovane Marco Belinelli (poi campione Nba con i San Antonio Spurs nel 2014), la Benetton Treviso di un altrettanto giovane Andrea Bargnani (che, di lì a pochi mesi, sarebbe stato la prima scelta assoluta al Draft) e, in mezzo, la Carpisa Napoli. Con un roster che era un vero e proprio trattato di antropologia: Mimmo Morena capitano di lungo corso, l’atletismo senza pari di Sesay e Morandais, Jon Stefansson nel ruolo dell’uomo che veniva dal freddo (dell’Islanda), ‘o paisà’ Valerio Spinelli, la solidità di Larranaga e Cittadini, Mason Rocca nella dimostrazione di come testa cuore e palle possano supplire alla mancanza di una buona dose di talento. Anche, se non soprattutto, se di mestiere fai il centro e sei alto “solo” 204 cm.

E poi, lui. Lynn Greer. Semplicemente la cosa più incredibile che abbia mai visto su un parquet. Steph Curry prima di Steph Curry, uno spettacolo come mai prima e come mai dopo. E il protagonista di una delle più grandi gioie della mia vita da sportivo:

Tutti sotto l’egida di Piero Bucchi, un bolognese che sembrava passato di lì per caso e che invece trasformava in oro tutto ciò che toccava. Un po’ come sta capitando a Claudio Ranieri a Leicester. 

Ma, come avrete intuito, si trattava solo di un’illusione. Perché non si può vivere a lungo al di sopra delle proprie possibilità. Nemmeno con una squadra del genere, nemmeno con una Coppa Italia in più in bacheca, nemmeno dopo essere arrivati ad una gara di distanza dalla finale scudetto, al termine di una sanguinosa, drammatica, terribile e bellissima serie contro Bologna.

Il 20 settembre 2008, nemmeno un anno e mezzo dopo, la prima picconata ad un progetto che avrebbe dovuto sancire la nuova età dell’oro del basket campano: gravi e mai del tutto chiarite irregolarità amministrative (tra cui il falso in alcune dichiarazioni retributive) portarono il Consoglio federale a declassare la squadra nell’allora serie C regionale. Preludio a quel che sarebbe poi stato il fallimento sancito il 12 gennaio 2010. Il tutto nel colpevole silenzio delle autorità politiche ed amministrative, come Maione ha tardivamente confessato in una recente intervista a Repubblica.

Il fondo? Ma neanche per idea. Si era appena iniziato a scavare. Toccò alla Napoli Basketball, ammessa tramite wild card alla Divisione Nazionale A 2011/2012, raccogliere testimone, eredità e blasone della creatura di Maione. O, quanto meno, provare a farlo. Perché non ci volle molto per capire che il progetto di Salvatore Calise sarebbe naufragato di lì a poco. Già nella stagione successive, dopo aver perso le semifinali playoff contro l’Aquila Basket Trento (che, pochi giorni fa, è arrivata ad un passo dalla finale di Eurocup), la fusione con la Pallacanestro Sant’Antimo per ottenere il diritto alla partecipazione alla Legadue, preannunciava l’inizio della fine. Che sarebbe arrivata, puntuale, il 22 ottobre 2012, quando il Giudice Sportivo Nazionale escluse la società dal campionato per il mancato pagamento della prima rata dei contributi previsti. Risultato: annullamento delle tre gare fin lì disputate e svincolo di tutti i giocatori a roster, con il ricorso alle autorità competenti prontamente respinto.

All’orizzonte, però, si stagliava già la figura del nuovo salvatore. Quel Maurizio Balbi presentato in pompa magna alla piazza (o a quel che ne restava) con in dote il titolo della Biancoblù Basket Bologna (vale a dire la Fortitudo di quella semifinale indimenticabile anch’essa caduta in disgrazia), acquistato all’asta e pronto per essere riutilizzato per l’iscrizione alla DNA Gold nel 2013/2014. Parole (tante), fatti (pochi), millantate proposte per la costituzione di una polisportiva fatte pervenire (?) a De Laurentiis e l’inevitabile corollario di difficoltà gestionali dentro e fuori dal campo. Emblematica, in tal senso, la situazione dell’anno scorso quando ogni trasferta della squadra era a rischio a causa delle difficoltà economiche e con i giocatori che minacciavano lo sciopero una settimana si e l’altra pure per gli stipendi non pagati. Fino a quando la Federazione ha deciso di porre fine all’ennesimo scempio con la decisione del 28 marzo scorso.

A colpire non è tanto l’epilogo. Quello era già scritto da parecchio, nonostante il grottesco tentativo di salvare il salvabile da parte della proprietà. Ciò che stupisce, anche se non dovrebbe più, è il reiterarsi, quasi scientifico, degli stessi errori da parte di personaggi così diversi eppure così uguali gli uni agli altri. Basta leggere il comunicato dell’ (ex) Amministratore Unico Federico Sambiase. Un inno al gattopardesco “tutto cambia perché niente cambi”, l’ennesima stucchevole ricerca di un nemico che prima sembra non esserci e poi viene identificato nel tempo “tiranno ed invincibile”. Quando, invece, è stato fin troppo.

Tre anni, per la precisione. Tra anni in cui non è stato fatto nulla, in perfetta continuità con le gestioni precedenti. Tre anni in cui si è perseverato nel giocare in quell’inferno di cemento e lamiera del Palabarbuto. Tre anni in cui i progetti di ristrutturazione del Pala Mario Argento (datati 2007) sono rimasti a impolverare nei cassetti di un’amministrazione comunale connivente. Tre anni in cui si è continuato a vivere di ricordi, come se la grandezza perduta fosse destinata a tornare come per magia. Tre anni in cui non è restato altro che ammirare realtà come Avellino farsi strada, meritatamente, nel basket dei grandi. Tre anni in cui il passo da rabbia a rassegnazione è stato breve.      

Ma come detto, il problema è altrove. E’ a monte. E’ nella mentalità di un popolo che crede che sport faccia rima solo e unicamente con calcio. Come se avere due squadre degne nella stessa città fosse una roba fuori dal mondo. E, in effetti, fuori dal mondo lo è. Da questo mondo, almeno. Perché non è un caso che la Napoli cestistica abbia colto i suoi maggiori successi quando la controparte calcistica annaspava nei polverosi campi della Serie C (e viceversa). Con il rito domenicale che si celebrava non solo al San Paolo ma anche in un PalaBarbuto, pieno come mai prima e come mai dopo. Così come pieni erano anche gli improvvisati playground ai giardinetti di via Ruoppolo o fuori lo stadio Collana, con ragazzi e bambini che iniziavano a familiarizzare con un’alternativa valida e divertente, con dei valori diversi dal protestare con un arbitro o dal litigare con gli avversari, con una nuova visione del concetto di giocare di squadra. Con e per gli altri.

Di questo che sarebbe potuto essere uno dei lasciti migliori alle nuove generazioni non è rimasto niente. Playground e giardinetti si sono nuovamente svuotati, con i canestri lasciti lì ad arrugginire. E se vedete qualche bambino con qualche canotta da basket è solo perché fa il paio con le sneakers ultimo modello che ha ai piedi. Siamo rimasti in pochi, pochissimi, a lottare per affrancarci da chi ci vuole come figli di uno sport minore. Anche se i recenti sviluppi dimostrano che, nei fatti, è proprio così:

«E’ importante, nel rispetto dovuto alle tante Società virtuose della Lega che rappresento, affermare che vicende come quelle dell’Azzurro Basket Napoli devono avere un termine. I campionati vengono falsati, i tesserati non vedono rispettati gli accordi, gli appassionati disorientati ed allontanati dal nostro mondo. L’invito, che voglio ribadire con forza, è che faccia pallacanestro chi ha le risorse per farlo. Adeguate al livello al quale si intende competere. Come Lnp posso confermare il massimo impegno al fianco di chi, con serieta’, rispetta gli impegni presi e lavora per la continuita’ di una tradizione di pallacanestro. Ed al tempo stesso – conclude Basciano – in collaborazione con la Fip unica depositaria dei provvedimenti sanzionatori, lo studio di normative che impediscano, fin dove lecito, partecipazioni avventurose ai tornei. Come si è dimostrata essere quella dell’Azzurro Basket Napoli».

Sempre Basciano. Sempre qualcosa di già detto e già ascoltato. Sempre qualcosa con cui non si può non essere d’accordo. Purtroppo o per fortuna.

Sia chiaro. Non ce l’ho con i napoletani calciofili. Lo sfacelo attuale non è colpa loro o dei ragazzi di Maurizio Sarri che, tornati agli antichi splendori, stanno catalizzando l’attenzione di tutti. E’ altrettanto vero, però, che in una comunità sportivamente più di larghe vedute e più consapevole una mortificazione come quella di sei fallimenti in otto anni avrebbe potuto essere evitata. Lasciando meno alibi agli amministratori locali che, più volte interpellati sulla questione, non hanno trovato di meglio da fare che rispondere nel consueto ottimo ed inutile politichese.

Nelle ultime ore mi è capitato di parlare con amici e conoscenti di tutto questo. Uno di loro, scrollando le spalle, mi ha detto «Forse è perché il basket non merita Napoli». Mi è toccato correggerlo. Perché è assolutamente il contrario. 

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