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“Quando il Boca era il Boca, si tifava Napoli. Oggi ha tradito la sua storia”

“Quando il Boca era il Boca, si tifava Napoli. Oggi ha tradito la sua storia”

Dice Leandro, di fronte a una pizza, che è un malato di calcio.

Che da piccolo, quando non tutte le partite del campionato argentino erano trasmesse in tv, e quelle del Napoli di Diego sì, lui si svegliava presto per vederle. Che alla Bombonera, lo stadio del Boca, si entrava anche tre ore prima per prendere posto. E alla radio si sentiva che faceva el Pibe, si esultava, si cantava “Na-po-li, Na-po-li”.

Che quello era un altro Boca, la squadra degli operai. La squadra che non aveva un peso, che comprava giocatori dalle serie inferiori: magari non valevano e non guadagnavano nulla, ma “lasciavano l’anima” in campo. E che per questo, quando vincevano di un gol contro l’ultima in classifica, si festeggiava come per una partita di cartello. Che quel Boca, ancora nell’84, un giorno di luglio riceveva l’Atlanta nella Bombonera. E che poiché le due squadre avevano le maglie dello stesso colore, toccò al Boca usarne una di riserva. Ma le finanze del club permisero di comprare solo un po’ di magliette bianche, e di scriverci sopra i numeri col pennarello. La pioggia completò la commedia: tutto illegibile e indimenticabile. Si lamenta Leandro di come ora il Boca sia la cosa più falsa del calcio argentino, ha tradito tutto questo, lui non si riconosce in uno stadio con prezzi altissimi, con scritte in inglese per i turisti, che tace troppo. Ma come, “tace”? Sì, è ancora impressionante, ammette Leandro, ma guardati i video degli anni ’70-’80.

Spiega Leandro che ora il Boca è come un amico con cui sei cresciuto nella povertà, “che ce l’ha fatta” e ora a stento ti saluta. E che comunque lui tifa ancora Boca, perché come puoi evitarlo? Consiglia Leandro, comunque, di cercare il vero calcio argentino in altri campi. Quello del Nueva Chicago, nel suo quartiere, Mataderos. Ora lui si rifugia lì: poca polvere mediatica, e sempre quella famosa anima. O il campo del San Lorenzo, o quello del Racing.

O soprattutto a Rosario. Per lui che ha visto calcio in tutto il mondo – ora vi racconta – Rosario Central contro Newell’s Old Boys è la partita più bella del mondo. Lì, quando vai ad affittare casa, ti può capitare che ti chiedano per quale delle due squadre tifi (a Rosario tutte le altre non esistono), perché ci sono condomini che esporranno i bandieroni, e c’è il rischio che tu li voglia incendiare, allora meglio non affittarti proprio l’appartamento, cercalo da un’altra parte.

Illustra Leandro che il calcio argentino si divide fra Menottisti e Bilardisti. Lui fa parte di questi ultimi, perché quando Menotti diceva che l’importante è il gioco, era “pura mentira”, pura bugia (ma mentira è di più, soprattutto se fai durare la “n” un’ora e mezza e poi finisci il bicchiere). Nel calcio bisogna vincere. Se la sua squadra gioca bene e perde 3 a 1, Leandro tornando a casa prende a calci tutto. Racconta Leandro che nella sua squadretta di calcio sono tutti Bilardisti, che per loro non fu Diego a renderlo grande ma lui a rendere più grande il più grande. Si invia messaggi con gli amici con perle di Bilardo (del quale consiglia l’autobiografia “Doctor y campeón”). Ad esempio, quella di quando dopo la sconfitta contro il Camerun a Italia ’90, disse ai giocatori: «Se perdiamo anche contro la Russia, paghiamo un paracadute al pilota e guido io finché non ci schiantiamo».

Oppure quando dopo il primo tempo contro il Brasile che li stava massacrando, i giocatori argentini aspettavano nello spogliatoio una sfuriata dell’allenatore. E Bilardo zitto, guardando per terra. Un minuto, due minuti, cinque minuti. Si fissavanol’uno con l’altro. Passarono dieci minuti, poi quindici, e l’arbitro invitò la squadra a rientrare. «Un momento, ragazzi», fermò Bilardo i suoi, «la palla dovete passarla a quelli con la maglietta bianca e azzurra».

Ricorda Leandro che nel 2006 andò in Europa a febbraio, per vedere i mondiali di Germania a Giugno. Aveva amici a Madrid, e iniziò a lavorare: trasportava i cartoni “con gli africani”. Ma se anche gli avessero offerto un posto fisso, avrebbe rifiutato, ché tanto qualche mese dopo doveva vedere i mondiali. Ride di lui e il suo amico in giro per la Germania a seguito della Nazionale, dormendo in camper. Poi di lì tornò a Valencia, e fece fortuna in una multinazionale. Questa multinazionale gli diede lavoro a Parigi, lui la prese come una sfida e accettò. E lì rimase due anni e mezzo: tempi difficili senza sapere la lingua.

Svela Leandro che lì entrò a far parte del Napoli Club. A Parigi conta talmente tanto, che durante le visite istituzionali dall’Italia c’erano politici e autorità dei due paesi e poi i tifosi del club. Nei musei, alle inaugurazioni. Dice senza un briciolo di retorica né nella voce né negli occhi, che per lui Napoli è molto più di una squadra, e anche di una città: è stata una rivelazione, l’ha vista con gli occhi dei napoletani, ci andava due tre volte l’anno a sostenere gli azzurri del disordinato Pocho Lavezzi. A lui Napoli ha insegnato mille cose, le deve molto, da lei ha avuto riconoscimenti importanti, si è trovato a rappresentare Napoli, lui che nemmeno è napoletano, in eventi pubblici, lui che era partito da zero in Europa.

Confida Leandro che anche adesso che è tornato, per lavoro e perché è argentino, stasera è qui, a mangiare una pizza con il Napoli Club di Buenos Aires, proprio per gratitudine.

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