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Per Malagò (numero uno del Coni) quello contro Koulibaly non è razzismo. Il Tempo ne fa una questione di reciprocità

Per Malagò (numero uno del Coni) quello contro Koulibaly non è razzismo. Il Tempo ne fa una questione di reciprocità

Ci sono temi, quali il razzismo, che dovrebbero unire anziché dividere. Nel calcio, e non solo, dovebbero esserci valori condivisi al di là delle appartenenze. Ed è per questo che troviamo francamente fuori luogo la posizione assunta oggi dal direttore del quotidiano romano “Il Tempo”, così comefrancamente sconcertanti le dichiarazioni del numero uno del Coni Giovanni Malagò.

Nel suo editoriale, Gianmarco Chiocci perde una buona occasione e dimostra anche di non avere ben chiari i termini della questione: “Il razzismo non è uguale per tutti. C’è il coro ultras che ogni domenica supplica il Vesuvio di lavare col fuoco i napoletani, passibile di punizioni esemplari a seguito di indignazione popolare. E c’è il coro ultras che ogni domenica dà dei bastardi assassini e pezzi di m… ai romani (laziali o romanisti fa lo stesso) che non è passibile di nulla perché, evidentemente, non scandalizza chi si scandalizza di professione. Insultare un napoletano è razzismo, ingiuriare un romano no: duecento chilometri di distanza, un’ora appena di Frecciarossa. Dov’è la differenza? I confini della discriminazione territoriale quali sono?”. Sfugge il passaggio secondo cui apostrofare qualcuno come “bastardo” o “pezzo di m…”, cui ripetute sentenze sia della Cassazione che del Giudice Sportivo – giusto per sgombrare il campo da equivoci legati alle differenze sempre esistenti tra l’ordinamento statale e quello sportivo – hanno attribuito il valore di ingiuria (definizione utilizzata, come si legge, dallo stesso Chiocci), sia qualificabile come discriminazione territoriale, non potendosi oltretutto cogliere nessun riferimento geografico, o come razzismo.

Il dettato dell’articolo 11 del Codice di Giustizia Sportiva, relativo alla responsabilità per comportamenti discriminatori, recita testualmente: “Costituisce comportamento discriminatorio, sanzionabile quale illecito disciplinare, ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine etnica”. Da quanto si legge, dunque, è quantomeno curioso attribuire una declinazione razzista agli insulti citati da Chiocci. Anche in chiusura di pezzo, il direttore finisce per mettere nello stesso calderone cose dalla dubbia pertinenza, risalendo fino agli insulti di Materazzi alla sorella di Zidane e attribuendo addirittura a Genny ‘a carogna un ruolo nella trattativa Stato-Mafia del calcio.

Per fortuna il direttore de “Il Tempo” definisce comunque “infami” i “buuh” indirizzati a Koulibaly. Dandone poi un’interpretazione degna di approfondimento: sarebbero stati insulti razzisti urlati come pretesto per ricattare le società. Una linea, come si legge, seguita anche dal presidente del Coni Gianni Malagò, che ha affermato: “Non c’era nessuna volontà realmente discriminatoria o razzista dietro quei cori, piuttosto è una forma non accettabile, non giustificabile, di protesta verso qualcuno, che sia la società o la squadra. Si tratta di una forma di autolesionismo da parte di un gruppo di persone che sanno che ormai le sanzioni scattano in automatico”. E il presidente laziale Lotito, in un intervista a “Repubblica”, ha rincarato la dose: “Quello non è razzismo, anche nella Lazio giocano ragazzi di colore”.

La teoria del ricatto, soprattutto alla luce del rapporto tutt’altro che idilliaco tra Lotito e i tifosi della Lazio, di certo ha un suo fondamento. Ma le affermazioni di Malagò e Lotito rappresentano un tentativo di disimpegno maldestro e soprattutto gravissimo. Tutto questo non può assolutamente essere disgiunto dalla questione razzismo. Anzi, il fatto che ci si serva dei “buuuh”, essendo a conoscenza degli effetti che ne possono derivare, per arrivare a uno scopo costituisce un’aggravante, dimostrando da parte di chi pone in essere simili condotte la piena consapevolezza di ciò che fa e del tipo di messaggio che veicola.

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