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La vita di Massimo Troisi / 4 – La folgorazione del Postino e quel maledetto 4 giugno

La vita di Massimo Troisi / 4 – La folgorazione del Postino e quel maledetto 4 giugno

Pubblichiamo la quarta e ultima puntata della vita di Massimo Troisi a cura di Antonio Fiore, già apparsa sul Corriere del Mezzogiorno e tratta dal blog www.ilcriticomaccheronico.it

“Io non leggo mai. Non leggo libri, cose… pecché… Che comincio a leggere mo’ che so’ grande, che i libri sono milioni e milioni? Non li raggiungo mai, hai capito? Pecché io sono uno a leggere, loro sono milioni a scrivere”: è una ellittica battuta di Camillo Pianese, il paralitico psicosomatico interpretato da Troisi nel suo “Le vie del Signore sono finite”. Però proprio quel film del 1987 rivela un Massimo alla febbrile ricerca di una dimensione più riflessiva, più colta, più intellettuale: il film risulterà il più umbratile e il meno comico dei suoi, ambientato nella soffocante provincia italiana negli anni del fascismo trionfante. In egual misura incompreso e amato, “Le vie del Signore sono finite” chiarisce almeno due cose: la prima è che Troisi regista non si limita più a impaginare con gusto una serie di deliziosi sketch più teatrali che cinematografici; la seconda, che Troisi attore ha imparato a scavare fino in fondo, a tratti addirittura con crudeltà, nella psicologia dei personaggi. Il Massimo Troisi delle interviste e delle (rare) ospitate televisive è pur sempre scoppiettante e di originalissimo, travolgente humour (citazioni indispensabili: “Gianni Minà, l’uomo che invidio per la sua agendina telefonica”, con la C di Cassius Clay, la F di Fidel, e “alla T Fratelli Taviani, Little Tony, Toquinho, Troisi”; sempre con Minà la mitica intervista post-primo scudetto al Napoli, dove Massimo confessa che, pur di condividere le gioie e le confidenze dello spogliatoio azzurro, sarebbe felice di essere la moglie di uno dei calciatori, “o almeno l’amante della moglie di uno dei calciatori”; l’ineffabile risposta a Gigi Marzullo “Io vedo sempre le tue trasmissioni. Non mi piacciono, ma le vedo”; e lui a “Indietro tutta” convinto da Arbore e Frassica di essere Rossano Brazzi); ma intanto la sua finezza di interprete ha colpito uno dei maestri del cinema italiano, Ettore Scola, che lo dirigerà per ben tre volte in tre anni, le prime due in coppia con Mastroianni (“Splendor” e “Che ora è?”, che frutterà a Massimo la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile a Venezia nell’89 ex-aequo con Marcello) e l’ultima ne “Il viaggio di Capitan Fracassa”, dove fu un Pulcinella malinconico e tiepolesco, in uno straniato rovesciamento della maschera popolare.

Il sodalizio con Scola lo ha ormai reso cosciente delle proprie potenzialità (inevitabili i paragoni con Eduardo e Totò, che Massimo esorcizzava con eleganza suprema: “Se mi accostano a Totò e a Eduardo a me sta benissimo: sono loro che si offendono”); e subito dopo Troisi comincerà a lavorare a quella destinata a essere l’ultima sua regia: “Pensavo fosse amore… invece era un calesse”, uno straordinario esercizio sui sentimenti in cui tutti i personaggi (ma proprio tutti, anche quelli secondari, persino i passanti che chiacchierano fra loro) parlano esclusivamente d’amore, ossessivamente, poeticamente, sconsolatamente (“Non è che sono contrario al matrimonio… io credo che, in particolare, un uomo e una donna siano le persone meno adatte a sposarsi tra di loro. Troppo diversi, capisci?”) come forse aveva saputo fare (ne “La schiuma dei giorni”) il solo Boris Vian, altra grande anima toccata troppo presto dall’ala della morte.

Come Massimo: al quale non scuseremo mai l’anticipo tremendo con quale se n’è dovuto andare. Perché stiamo ormai entrando nell’ultimo, definitivo capitolo di quella “scheggia di bellezza” che è stata la vita e l’arte di Massimo Troisi. A cui qualcuno, non sapremo mai con certezza chi, fece leggere un giorno un librino di Antonio Skármeta, poche decine di pagine d’uno scrittore cileno molto apprezzato soprattutto dagli appassionati di letteratura ispano-americana: si intitolava “Ardiente paciencia”, pubblicato da Garzanti in italiano come “Il postino di Neruda”. Massimo lo lesse, anzi lo divorò, rimanendone folgorato. Chiese a Nathalie Caldonazzo, la sua ultima compagna, di leggerlo pure lei: “Questo sei tu”, gli disse Nathalie dopo averlo richiuso. Poco tempo dopo Massimo contattò Michael Radford, bravo regista inglese innamorato del Sud e con il quale Troisi aveva già in passato progettato di lavorare, e i due si dettero appuntamento a Los Angeles per cominciare a mettere mano alla sceneggiatura. Troisi però non aveva fatto i conti (oppure li aveva fatti benissimo, al millimetro?) con il suo cuore malato. Comincia a non sentirsi bene, e una visita di controllo a Houston rivela che la valvola mitralica artificiale deve essere subito sostituita. L’intervento riesce, ma non è affatto risolutivo: dopo un mese e mezzo di degenza i medici Usa gli prospettano la necessità di un trapianto. Massimo non è un incosciente, sa che la sua vita dipende da quella scelta. Però pensa di avere ancora un po’ di tempo: “”Il Postino” lo voglio fare con il mio cuore”, e questa non sarà una delle metafore che nel film il poeta esiliato Neruda spiega al suo ammiratore incantato. Sarà invece l’inizio di un calvario che, tra Procida e Salina, lo costringerà a girare solo per un’ora al giorno prima che la spossatezza gli impedisca anche di camminare; e lo obblighi a utilizzare, in quasi tutte le scene in cui avrebbe dovuto pedalare o spingere la bicicletta, i campi lunghi e la controfigura. Debole, smunto, prosciugato in una magrezza che esalta la vitalità dello sguardo e con i solchi profondi sul volto che lo fanno curiosamente assomigliare all’amato Pasolini, Massimo non molla, e non fa pesare sulla troupe e sui colleghi il suo stato.

Fino al 3 giugno, fino all’ultimo giorno di riprese, fino all’ultimo ciak del film che lo consegnerà alla leggenda sublimando la sofferenza in icona definitiva (dell’arte, della poesia, e suo malgrado del turismo cinefilo-necrofilo). Però quel 3 luglio accade anche un’altra cosa che in pochi conoscono: Massimo apprende che è morta a Roma Anna, figlia del giornalista Rai Italo Moretti e di sua moglie Silvia. Anna e Massimo si erano conosciuti quasi vent’anni prima a Houston: questioni, come dire, di cuore. Il ragazzo di San Giorgio e la madre di lei, Silvia, erano ricoverati nello stesso reparto, e ogni tanto i familiari degli ammalati si scambiavano affettuosamente i ruoli: Rosaria Troisi al capezzale di Silvia Moretti, la diciottenne Anna a quello di Massimo (senza dimenticare di portargli le fragole che gli piacevano tanto). Continuarono a frequentarsi anche dopo il rientro in Italia, lui andava a trovarla a Roma, lei a San Giorgio lo accompagnava alle prove dei primi spettacoli di cabaret. Poi, improvvisa e imprevista, la rottura: “Massimo non volle mai parlarne, ma io avevo la sensazione che fosse stato proprio lui ad allontanarsi”, annota nel suo libro Rosaria Troisi: “Tempo dopo Silvia, la mamma di Anna, mi confermò che Massimo non aveva voluto legarsi alla figlia per via delle sue condizioni di salute. Voleva il suo bene, e non poteva sopportare l’idea di starle vicino, lui che si sentiva così fragile e “scassato”. Sapeva di dover tenere a bada la morte e non voleva trascinare Anna in quel destino”. Ma quel legame speciale e diverso da tutti quelli che l’attore avrebbe stretto in seguito – un legame nato dalla comune sofferenza e alimentato da una comune sensibilità – era rimasto intatto. E ora Anna era morta. Massimo ne fu profondamente turbato; lui, di solito refrattario a missive e telefonate, scrisse un lungo telegramma ai genitori: “Trovo crudele non dover parlare di Anna ma del suo ricordo. La sua dolcezza, il suo altruismo e la sua forza, che ho potuto fortunatamente incontrare nella vita, resterà comunque patrimonio indelebile del mio spirito e del valore più alto dell’amicizia”. Il giorno dopo il funerale Massimo è a Ostia, a casa di sua sorella Annamaria. C’è anche la sorella Rosaria, venuta da San Giorgio a Roma per l’ultimo saluto ad Anna. Sono seduti a tavola, ma nessuno di loro ha appetito. Massimo è stanco di una stanchezza infinita. Si alza, va a stendersi sul divano. Gioca un po’, svogliatamente, con la nipotina, Gabriella. Gli occhi inquieti, lo sguardo muto. Decide di andare di là a riposare. Rosaria gli chiede se voglia un goccio di caffè. “No, grazie, m’ ‘o piglio quanno me sceto” sono le sue ultime parole prima di addormentarsi. Era il 4 giugno di ventuno anni fa. Era oggi. (4 – fine)

(foto Archivio fotografico Mario Tursi) 

La prima puntata: Le trasferte in treno per il Napoli, Pasolini e i lavori da stagionale a raccogliere la frutta

La seconda puntata – Otto anni per il diploma di geometra promesso a papà e la differenza tra i vigili urbani e Ingmar Bergman

La terza puntata – ’O ssaje comme fa ‘o core

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