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Dopo il 1799, Napoli si è arroccata e ha scritto solo della cultura del vicolo. Ovvio che oggi ha paura dell’internazionalizzazione

Dopo il 1799, Napoli si è arroccata e ha scritto solo della cultura del vicolo. Ovvio che oggi ha paura dell’internazionalizzazione

Il tema dell’internazionalizzazione è molto attuale. Nell’Università. Nelle aziende. Adesso anche nel mondo del calcio. Dove è il tema del giorno. Sui siti. Sui quotidiani. Nei talk show. Almeno a seguire le diatribe tra “rafaeliti” e “antirafaeliti”. I primi, in particolare, non potendo ostendere risultati si arroccano nella funzione internazionalizzatrice del tecnico spagnolo. Se è vero come è vero che il Napoli ha mutato atteggiamento sullo scenario internazionale. In giro per l’Europa oggi più di due anni fa sanno che esistiamo. Il tutto condito con il tentativo (ahimè talvolta abortito sul campo) di far luogo ad un gioco più “europeo”. Che poi, terra terra, vuol dire meno sparagnino. Portato a cercare il successo al grido “primo darle”. Abbandonando per sempre l’amato “primo non prenderle” di pesaoliana memoria.

In vero a Napoli l’internazionalizzazione è osservata con sospetto. Si legge su un quotidiano: “C’è un filo che lega i concetti di internazionalizzazione e di napoletanità a proposito di futuro del Napoli?”… Quello dell’internazionalizzazione è “un concetto da maneggiare con cura, perché si rischia di far indossare le maglie azzurre a professionisti che non avvertono il forte legame tra la squadra e la gente.

Che cosa significa ciò? Niente di nuovo sotto il sole. Dopo la rivoluzione fallita del ’99, Napoli ha perso la capacità (e l’interesse) di guardare fuori dalle sue mura. E si è ripiegata nella esaltazione autoreferenziale di essere una grande capitale. Che non ha bisogno di altro né di altri per essere grande. A differenza, ad esempio, di Palermo e della Sicilia tutta che pur essendo egualmente meridione guardava a Parigi e a Vienna. Magari anche per sottrarsi alla sudditanza verso Napoli. Magari anche un poco per gelosia verso la capitale. Ma tant’è. Come effetto di questo processo di internazionalizzazione ha prodotto ad esempio una grandissima scuola di letterati.

Tra i quali giganti di valenza mondiale.

Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De Roberto, Luigi Pirandello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Elio Vittorini, Vitaliano Brancati, salvatore Quasimodo, Dacia Maraini, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Leonardo Sciascia, Andrea Camilleri …

Nessun complesso. Nessun senso di colpa dal guardare all’Europa. «La vraie patrie est celle où lon rencontre le plus de gens qui vous ressemblent», diceva Stendhal in Roma, Napoli e Firenze riferendosi all’Italia, sua «patrie» d’elezione. Come ricorda Alfio Squillaci in un suo intervento. E ancora Squillaci «Per analoghe e corrispettive ragioni a molti intellettuali siciliani la Francia è parsa la “patrie” o la “matrie” ideale perché credettero di incontrare in essa “beacoup de gens” che più somigliava loro. C’è infatti un legame speciale che collega gli intellettuali siciliani alla Francia. Sciascia prendeva il vagone-letto per la Francia che partiva diretto, senza cambi, dalla stazione di Palermo, per andarsi a rifornire di libri e di articles de Paris” tutte le volte che poteva. …Se andate a visitare la casa di Verga in via sant’Anna a Catania e date una sbirciatina ai dorsi dei volumi della sua libreria vi troverete libri francesi in grande quantità….” 

Mentre in terra di Sicilia si produceva tutto ciò, a Napoli invece si affannava. Per decenni e decenni si è scritto e raccontato fondamentalmente la vita del vicolo, l’economia del vicolo, l’etica del vicolo, il sociale del vicolo, i panni stesi nel vicolo…. Nemmeno la Ortese, con il suo pur bellissimo Il mare non bagna Napoli, sfugge a queste catene. Per avere un grande romanzo di respiro europeo si è dovuto attendere il 1961. Quando uscì Ferito a morte di Raffaele la Capria.

Forse De Laurentis si era illuso che Benitez nel calcio valesse La Capria nella letteratura?
Guido Trombetti (tratto da Repubblica Napoli) 
(foto Pignon)

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