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La notte in cui perdemmo a Kiev (andai a Capodichino e chi mi intervistò mi chiese di mostrarmi deluso dal Napoli)

La notte in cui perdemmo a Kiev (andai a Capodichino e chi mi intervistò mi chiese di mostrarmi deluso dal Napoli)

Caro napolista, ti scrivo per raccontarti una storia, che, vista l’aria che tira in città, definirei quasi di genere fantascientifico. Semmai dovesse esser degna di pubblicazione, mi piacerebbe si intitolasse “La notte in cui perdemmo a Kiev”, con un vago riferimento letterario che forse coglieranno in tre.

Prima, però, sono necessarie alcune premesse: sono un tifoso del Napoli, da sempre napolista e in più scaramantico. Quest’ultimo punto è importante ai fini della storia, dunque tenetelo a mente.
Ulteriore premessa: pur non volendo offendere la corrente di pensiero che vede l’Europa League ormai come una coppetta per squadre mediocri, per me, al contrario, questa competizione contava molto. Vi risparmierò la retorica sull’infanzia passata a consumare la vhs del trionfo dell’89, di gol riprodotti con una pallina da tennis nel corridoio di casa e di un vaso di mia mamma che, a causa di una forma vagamente simile, diventava per l’occasione la Coppa Uefa da alzare al cielo del salotto.

Per farla breve, comunque, mi ero innamorato del sogno di rivincerlo quel trofeo.

Detto ciò, e richiamando la scaramanzia di cui sopra, devo confessarsi un grave momento di debolezza per il quale faccio pubblica ammenda: il giorno in cui, in quel di Nyon, beccammo il Dnipro, esultai.

Sia chiaro, il mio entusiasmo era dovuto ad aver evitato la spauracchio Siviglia e non durò più di un paio di minuti. Il tempo di informarmi sulle qualità difensive degli ucraini e di trasformarli mentalmente in un avversario leggendario, feroce ed imperforabile. Eppure il rimorso per aver “cantato vittoria”, sebbene per pochi istanti, mi tormentò costantemente. A nulla servì insultare gli sprovveduti che allegramente mi parlavano di aerei, treni, bus, auto e biciclette da prenotare per Varsavia, né scongiurare contro quei folli che decisero di portare la coppa in giro per Napoli nel giorno della gara d’andata. Sentivo che l’avrei pagata.

Quando, durante i primi novanta minuti, vidi il mio Napoli sprecare decine di palle gol ed il portiere del Dnipro (orgoglioso nella sua casacca numero 71) trasformarsi immancabilmente in supereroe, fino alla beffa del gol irregolare subito, attribuii senza dubbio alcuno ogni colpa al karma.
Nei sette giorni che ci divisero dalla fatale Kiev, quella sensazione negativa non mi abbandonava, aggravata da una città che sembrava incosciente della difficoltà dell’impresa.
Continuavo a ripetermi come un mantra “Ci concederanno una palla gol netta all’inizio e non dobbiamo fallirla” ma non riuscivo ad emendarmi mentalmente dal mio “peccato originale”. Dovevo fare qualcosa per cambiare quella sorte che sembrava ineluttabile.
Fu così che, in quell’eterno pomeriggio pre-partita del 14 maggio, ebbi l’illuminazione. Rivolgendomi alla mia ragazza, Carlotta, anche lei napolista convinta, dissi: “Dopo la partita andiamo a Capodichino”. Rifiatai e aggiunsi: “Che si vinca o si perda”.
Eh sì, in fondo era la prima semifinale europea da 26 anni e, comunque sarebbe andata, dal mio punto di vista, la squadra sarebbe stata da ringraziare.

Soddisfatto del mio voto per ingraziarmi gli dei del Calcio, arrivò l’ora della partita.
Sappiamo com’è andata. Vidi Higuain fallire l’occasione clamorosa d’inizio partita e compresi che sarebbe finita male. Così fu.

Il voto professato andava comunque rispettato, la squadra, che ci aveva portato fin lì, onorata.
Consultato il sito dell’aeroporto, trovammo subito il solitario volo da Kiev in arrivo a Napoli alle 3.55 del mattino. Ed è così che, nella notte che perdemmo a Kiev, ci ritrovammo a girare in auto per una città deserta, a fermarci in qualche bar e in qualche piazza vuota a fumare, rimuginare sulla partita ed avere più di qualche ripensamento sulla nostra impresa. Ma alla fine, fattesi le tre, ci dirigemmo convinti in direzione Capodichino. Benché avessimo fantasticato di farlo in diverse occasioni, era la prima volta che andavamo all’aeroporto ad aspettare la squadra di ritorno da una trasferta e non sapevamo né dove saremmo dovuti andare, né quanti tifosi in attesa avremmo trovato. Io mi azzardai ad ipotizzare qualche decina di persone, al massimo un centinaio. Forse contesteranno, aggiunsi.
La realtà fu ben diversa.

La notte che perdemmo a Kiev noi due saremmo stati gli unici ad attendere il Napoli di ritorno dall’Ucraina. Trovammo lì solo un paio di volanti della polizia.
Stavamo giusto chiedendoci se fosse troppo presto o se avessimo sbagliato il terminal, quando scorgemmo una troupe fare delle riprese. Ci avvicinammo per chiedere se fossero lì per il Napoli e ci dissero di essere di Sport Mediaset. Neanche loro sapevano bene da che parte sarebbero usciti i giocatori.

Il giornalista del gruppo, fino ad allora rimasto in disparte, ci chiese per quale motivo fossimo venuti. “Beh”, risposi, “la delusione è tanta, ma ci andava comunque di applaudire il Napoli che ci ha riportato in una semifinale Uefa dopo quasi trent’anni. Per una società giovane e partita dal nulla come la nostra è comunque un risultato notevole”. A quelle parole ci guardò come fossimo alieni appena sbarcati da Marte, e, dopo un attimo di sconcerto, si congratulò con noi per lo spirito ed aggiunse “Ormai è difficile trovare chi la pensa così in questa città”.
Si presentò. E’ un noto giornalista di una nota radio locale napoletana. Ci chiese se acconsentivamo a concedere un’intervista, ma si raccomandò: “Ditevi comunque amareggiati, altrimenti non vi mandano in onda. Poi aggiungete brevemente le vostre idee così come me le avete descritte”. Con un po’ di emozione registrammo.

Passammo l’attesa dell’aereo a chiacchierare con lui del Napoli e di calcio in generale, trovandoci d’accordo su un certo modo di intendere il tifo ed un senso d’appartenenza che ormai si sta perdendo in un clima di pretese crescenti e insoddisfazione ad oltranza. Scherzammo sul “delirio da fallimento” che si sarebbe scatenato in città dopo quella sconfitta.

D’un tratto vedemmo la polizia mettersi in movimento e li seguimmo. Giungemmo al varco a Viale Maddalena, da cui, ormai era sicuro, sarebbe passato il Napoli.

La notte che perdemmo a Kiev, l’aereo del Napoli fece un notevole ritardo. Alle 4 spuntò dall’asse mediano il pullman della squadra seguito da qualche taxi. Il cameraman imprecò nei confronti di De Laurentiis, reo, a detta sua, di tirchieria per non aver chiamato il pullman ufficiale ma uno “anonimo”, che non gli permetteva belle riprese.

L’attesa continuò finché, una mezz’oretta dopo, vedemmo apparire verso nord una luce arancione che lentamente aumentava d’intensità: l’aereo della squadra. Fu una visione quasi romantica. Avvertimmo il cameraman che corse a riprenderlo. Proprio quelle immagini sarebbero andate in onda a Studio Sport l’indomani.

Dopo un altro quarto d’ora, scortato da un paio di camionette della polizia, il Napoli uscì dall’aeroporto. Dapprima i taxi. Higuain, a bordo del primo, appariva visibilmente abbattuto. Poi altre vetture. Noi salutavamo con la mano, temendo che gli applausi potessero sembrare di scherno.
Le macchine passavano così veloci che di alcune non riuscivamo a riconoscere i passeggeri.
Da un auto qualcuno ridendo ricambiò il saluto. “Stavate ringraziando il fotografo del Napoli”, ci disse il giornalista e così scoppiamo a ridere anche noi.

Dopo i taxi fu la volta di un pulmino grigio, con a bordo Benitez, corrucciato mentre fissava qualcosa, forse un tablet, ed alcuni giocatori. Ignari della nostra presenza, nessuno si degnava neanche di voltarsi.
Per ultimo arrivò il pullman con all’interno il resto della squadra. Ed iniziammo ad applaudire. L’unico giocatore con il quale incrociai lo sguardo fu Henrique. La sua espressione di stupore mi fece sentire un alieno per la seconda volta in quella nottata.

Era andata. Salutammo i cameraman ed il giornalista, che, invitandoci ad andarlo a trovare in trasmissione, ci lasciò il numero del suo ufficio. Ci avviamo a casa mentre ormai albeggiava.
La notte in cui perdemmo a Kiev volgeva ormai al termine.

In auto discutemmo sul senso che avesse avuto fare tutto ciò, attendere per ore un aereo pieno di giocatori che poi, in pochi secondi, ci erano sfrecciati davanti indifferenti.
Nessun senso, ovvio. Ma se la mettiamo sul piano della razionalità, è l’intera vita da tifoso ad apparire priva di senso, quindi è una discussione inutile.
Convenimmo che comunque era stato un modo per smaltire la delusione dell’eliminazione e che, tanto, se fossimo rimasti a casa, neanche avremmo preso sonno.
Infine, aggiunsi con un pizzico di retorica, se un giorno i nostri figli ci avessero chiesto cosa significa per noi essere tifosi del Napoli, avremmo raccontato la storia della notte in cui perdemmo a Kiev.
Perché anche a loro sia chiaro: si vince insieme e si perde insieme.
E quel “Sempre”, aggiunto al “Forza Napoli”, non sta lì per caso.
Luca D’Emilio

PS: Se vi state chiedendo se le nostre interviste siano poi state trasmesse, la risposta è ovviamente negativa. Il giorno dopo la prima semifinale europea giocata in quasi trent’anni, in onda ci va solo chi critica presidente, allenatore, giocatori. Con buona pace di noi napolisti.

Ah, quasi dimenticavo: ecco il video girato da noi all’arrivo della squadra:
https://youtu.be/H0luvZeFbQ4 

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