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Dnipro-Napoli, diario di una lunga notte alcolica

Dnipro-Napoli, diario di una lunga notte alcolica
Il mio Dnipro – Napoli
Diario di un’alcolica notte da dimenticare.
Ore 2.35 non si riesce a dormire. Vago per tutte le stanze come un fantasma sconsolato. Fuori c’è un vento potente che disorienta, mentre dentro casa fa caldo. Ho la sensazione che anche le zanzare stanotte abbiano compreso che sia meglio evitarmi per non avvelenarsi. Le sento ronzare, ma a distanza. Ogni tanto sosto in cucina e verso nel bicchierino un po’ di rum. Non mi piace, ma la credenza non offre di meglio. Meno spesso annoto qualche pensiero estemporaneo sul foglio. 
“Ma com’è possibile?” è il più gettonato, oppure penso a quando domani mattina mia madre mi chiamerà all’alba e mi dirà “vabbè, in fondo è solo una partita di pallone. Pensa alle cose serie”. Sono 40 anni che me lo ripete. Sono 30 anni almeno che ho smesso di spiegarle.
Invece ora mi sento come se non ci fosse aria; asfissiato dai mobili e dalle pareti. Lo spazio è stretto e non sembra bastare. E il bicchierino è l’unica stupida boa. Mi sento come quando si perse con la Corea. Non la Corea di Ahn e Byron Moreno, quella era già troppo sofisticata rispetto ai fabbri ucraini. Parlo della Corea del dentista ai mondiali del ’66. Sì, nel 66 non ero nemmeno in programma, ma ricordo, da bambino, in tv o quando si giocavano tornei per strada o nel parco, quando si perdeva contro squadre palesemente inferiori, si usava l’espressione catastrofica “è stata una Corea”.
Ma com’è possibile?
Gente che a stento riesce a tenere il pallone tra i piedi. Ho visto addirittura battere falli laterali direttamente fuori dal campo. Ho visto rinvii sbilenchi diventare passaggi, lisci diventare finte, rimpalli innescare contropiede. 
Come si fa?
Non ho avuto il coraggio di leggere articoli e pagelle. Men che meno entrare nel mio social. Leggere commenti cinici e sarcastici di amici o tifosi è di quanto più masochistico in questo momento. Come se non si soffrisse già abbastanza. Ma immagino: perché non è entrato tizio, perché è uscito caio? Perché questo modulo? Perché ha tirato subito? Perché non c’è più Dzemaili? Perché? Perché?
Quando poi si è capito che la partita l’avremmo potuta giocare sino a luglio e il gol non lo avremmo mai fatto.
Tutte elucubrazioni e riflessioni giustissime, ma ora? Ora no. Forse domani, tra una settimana o un mese. O magari mai
Ogni volta che l’amarezza è così forte e soffocante penso a quando ci lamentavamo del nulla. L’avessi ora tra le mani quel nulla. Saremmo in finale.
Ore 3.10. Ho amici juventini che mi scrivono messaggi sul cellulare. Anche a quest’ora. Senza pietà. Hanno ragione. Mi sfottono. Mi sfottono come io faccio con loro (raramente) e sono le cose meno dure da digerire. Perché è giusto. Perché ci sta. Nel caso di un ipotetico triplete, dalle mie parti sarebbe una tragedia inimmaginabile che si aggiunge a questo stato e questo caldo insopportabile.
Mai e poi mai mi complimenterei. Preferirei espatriare su un altro pianeta. Come in questo momento.
Ore 3.40. Allofs e Briegel. Butragueno, Stopyra, Neubarth e Riedle, il rigore di Baroni, Weah, Falkenmayer, Reyes, Rossi e Nilmar, Drogba e Ivanovic, la panza di Horvat, l’autogol di Zuniga, Ghilas e Muniain. Credo di non aver dimenticato nessuno. E il signore che ha segnato ieri com’è che si chiama? Ha un nome? Per fortuna hanno tutti la stessa faccia e nomi impronunciabili. Non me lo ricorderò mai. 
Ma poi si è capito se il gol era regolare? O questi sono arrivati in finale con due perle arbitrali?
Ma in fondo cosa importa? Non siamo riusciti a segnare contro i metalmeccanici della sfera, questa è l’amara verità. Siamo fuori. Sono fuori.
Ore 4.05. Ho fatto un solco nel salotto. Ho fatto un solco nel bicchierino. Vado avanti e indietro senza meta, sapendo che non scenderà per ora il groppone che si è appeso alla gola. Sono abituato. Sarei abituato. Perché ogni volta che si ripropone è come fosse la prima.
Questi siamo. Da sempre. Non lo si può dire ma se ci voltiamo indietro questi siamo sempre stati. Mio zio me lo diceva sempre: noi siamo il Napoli. C’è solo da soffrire. E non dobbiamo mai sentirci favoriti. 
Appunto.
Ore 4.25. La potenza dell’amarezza dimostra che siamo arrivati lontano. Più si è vicini ad un obiettivo e più l’amarezza è forte se poi non lo si raggiunge. Penso a quei tempi in cui manco quella riuscivamo a percepire. Talmente intrisi nella melma che ogni mazzata era solo una giorno come un altro. Tipo anemia emozionale.
Stanotte invece si vive la delusione pura. Cruda. Quella che vorresti tenere a distanza, che pensi non ti debba più appartenere, mentre invece inesorabile si presenta con tutte le spine. Come questo caldo pregno di zanzare timorose. Manca l’aria. Dovrei forse aprire le finestre, ma il vento è ancora troppo forte. Prendo un altro bicchierino…
Ore 4.40. Penso agli amici che, noncuranti della storia e che le partite si devono sempre prima giocare, hanno già hanno comprato il biglietto per Varsavia. Condoglianze. Nemmeno un pizzico di scaramanzia li ha fermati. Almeno nel non manifestarlo al mondo.
Penso a coloro che invece mi hanno preso per il culo perché avrei preferito mille volte di più il Siviglia, squadra che gioca al calcio, che gli ucraini del ferro battuto.
Kiev come Chiev, e credo di non dover aggiungere altro.
Ma com’è possibile?
Gente che non ha mai tirato in porta, che non sa fare un palleggio, che al posto dei piedi ha scaldabagni arrugginiti, che sa solo spazzare, rinviare, correre e placcare. Siamo fuori per mano o per piede di analfabeti del pallone. L’anti calcio. Come si fa?
Ore 5.15. Non c’è consolazione. Forse di peggio c’è solo perdere in finale. Perché te la ricorderai o te la ricorderanno per sempre.
Questa invece prima o poi passa. Non so quando, ma passa.
È l’alba. Bevo l’ultimo bicchierino di Legendario cubano, promesso. Tra poco ricomincia la routine della normalità e il vento si sarà calmato. Mentre io, pur odiandola, non riesco a lasciare questa notte. Questa notte da dimenticare che so che per lungo tempo non mi lascerà pace.
Già sento suonare il cellulare, è la beffa finale. È mia madre con il suo “vabbè, in fondo è solo una partita di pallone”…
Forza Napoli Sempre
La 10 non si tocca.
Gianluigi Trapani
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