ilNapolista

Povero Bellavista, non riconosce più la sua Napoli

Povero Bellavista, non riconosce più la sua Napoli

Oggi Il Mattino intervista Luciano De Crescenzo. L’intervista o comunque la conversazione – a cura di Gianluca Agata – è un po’ nascosta. Il tema sono quei napoletani, pare ottomila, che avrebbero già acquistato il biglietto per la finale (qualcuno ha simpaticamente fatto mea culpa) la cui utilità adesso è pari alla carta bianca di decurtisiana memoria. Ebbene, De Crescenzo-Bellavista sembra spaesato, somiglia al marziano di Flaiano, prova ad analizzare una città che in fondo non conosce più e probabilmente non solo perché da anni, come tanti, non abita più lì. È sorpreso De Crescenzo, nella sua idea un napoletano non avrebbe mai potuto compiere un’avventatezza del genere: vendere la pelle dell’orso prima di averlo ammazzato. E la proverbiale scaramanzia? Dice una bella frase sulla differenza tra voler bene e amare (“forse dovremmo smettere di amare il Napoli e cominciare a volergli bene, perché il bene è per sempre”) e si interroga più volte: «Perché acquistare il biglietto per Varsavia con tanto anticipo?»

Ora, senza criminalizzare chi ha comprato il biglietto per carità, è un episodio indicativo e rappresentativo della metamorfosi del tifo napoletano. Sarebbe bello oggi assistere al cinema a un “Bellavista duemila” col professore che dopo un lungo viaggio torna nella sua città e non la riconosce più.

Senza indugiare in passatismi, e attenendoci soltanto al pianeta calcio, è da tempo che scriviamo del pubblico di Napoli, di un ambiente che ha assunto un atteggiamento quantomeno originale nei confronti della propria squadra: esige, pretende la vittoria. Che è come imporre a una donna o a un uomo di amarci. Che è come imporre al professore un trenta all’università senza aver aperto il libro. Non c’è il gusto della conoscenza, dell’apprendimento, dei collegamenti che via via si acquisiscono. No, c’è solo la pretesa del 30 sul libretto.

In ottomila avevano già acquistato il biglietto per Varsavia mentre in centomila sono andati al San Paolo nelle sette partite di quest’anno in Europa League. Per una media di 15mila spettatori scarsi per incontro. Perché a Varsavia si sarebbe potuto vincere. Questo era il richiamo. Che, ripeto fino alla noia, è l’obiettivo ultimo dello sport (con buona pace di de Coubertin) ma è un obiettivo che giunge al termine di un percorso ed è bello raggiungerlo perché quella folle gioia finale è condita soprattutto dalla fatica e dall’altalena di emozioni che ci hanno acompagnato lungo il tragitto. Altrimenti ha poco senso. Non dimentichiamo che quando ci giocammo la tanto bramata Champions in casa contro l’Arsenal allo stadio eravamo in 34mila perché la domenica c’era da fischiare l’ex Mazzarri. Non a caso il record imbattuto di spettatori è sempre quello di Napoli-Perugia col traditore Paolo Rossi.  

Il tema, come abbiamo scritto anche ieri, comincia a essere sentito. Gli inviati al seguito del Napoli ormai non trattengono più il loro stupore. Si sono resi conto che negli altri stadi d’Europa il tifo è vissuto diversamente. Hanno trovato ovunque stadi pieni, dalla Turchia a Mosca, da Berna a Wolfsburg dove i “freddi” tedeschi continuavano a incitare la squadra (e si sentivano anche in tv) pur se sotto di quattro gol. Abbiamo a lungo tediato i nostri lettori con l’esempio del Borussia Dortmund dove lo stadio era sempre pieno anche se la squadra era all’ultimo posto. Al punto che un basito Ciro Immobile ha confessato che il massimo della protesta sono stati quattro tifosi organizzati che hanno incontrato la squadra e hanno detto che si sarebbero attesi qualcosa di più. E poi se ne sono andati.

La possibilità di scorgere il traguardo ha stravolto l’animo dei tifosi. “Mi hai promesso che vinceremo? E adesso dobbiamo vincere e basta”. Un refrain cominciato la scorsa estate con manifesti sul pappone, e proseguito col papponismo elevato a corrente di pensiero con tanto di adepti illustri. Questo Napoli, il Napoli di questa stagione, ha praticamente sempre giocato contro vento. Con una metaforica pistola puntata alla tempia. Metaforica, ripeto. Con scarsa eleganza, l’altro giorno Lucescu ha rivelato quel che gli ha confessato Benitez in un incontro avvenuto tra i due prima di Dnipro-Napoli: “Mi ha rivelato che è molto difficile giocare a Napoli: se qualcuno sbaglia un passaggio immediatamente il pubblico crea pressione”. È stato così praticamente per tutto l’anno, al punto da avere un clima più respirabile quando siamo stati in pochi sugli spalti.

Un clima ovviamente avvelenato principalmente dai media che hanno sistematicamente battuto sull’annata disastrosa, sui risultati non all’altezza, sulle difficoltà di questa squadra, per non ricordare la cordata araba che stava per acquistare il Napoli, le ferie di Benitez e tanto altro ancora. L’allenatore è stato bersagliato da critiche tutto l’anno. Sempre. Senza sosta. Dal primo giorno. Su tutto: non sa preparare la squadra, non sa metterla in campo, non sa caricarla, non conosce il calcio italiano. Non sa fare nulla. Solo mangiare. Al punto che nemmeno De Laurentiis ha retto più la pressione e lo ha abbandonato nella serata in cui probabilmente il loro rapporto si è definitivamente incrinato.

Si avalla il concetto di stagione fallimentare senza che ci sia alcun fondamento. Si definisce fallimentare una stagione in cui il Napoli ha conquistato per la terza volta (solo tre volte!) nella sua storia una semifinale europea (l’Europa League è sempre stata considerata una coppetta, salvo correre in massa all’acquisto del biglietto quando si manifesta la possiblità di vincerla), in cui ha raggiunto il prestigioso traguardo di essere tra le prime venti squadre (ventesima) del ranking europeo, in cui ha conquistato la Supercoppa d’Italia (secondo trofeo in due anni, non sono scudetti per carità ma non era mai capitato al di fuori dell’era Maradona che il Napoli conquistasse due trofei in due anni consecutivi), in cui è andata in semifinale di Coppa Italia (altra manifestazione snobbata, salvo incazzarsi quando si perde) e poi un campionato che al momento ci vede quarti in classifica, piazzamento che ci tiene fuori dalla Champions, certamente al di sotto delle aspettative, ma non proprio da sputarci sopra. E ci sarebbero anche i preliminari di Champions persi col Bilbao. Ma dov’è questa stagione fallimentare? Fallimentare in relazione a cosa? Alla nostra bacheca? Al nostro passato? 

Nulla è apprezzato se non è vittoria. Insomma, l’antitesi del tifo, della passione. Ha giustamente scritto Errico Novi su Facebook che “Nick Hornby è meraviglioso quando racconta il dolore per le sconfitte, per lo scudetto dell’Arsenal che si fa attendere 15 anni”. Da noi, purtroppo, anche fior di scrittori hanno scelto di cavalcare il malcontento, di guidarlo, contribuendo a creare un clima surreale. Che, per carità, è ormai comune a tutto il calcio italiano. Esempi ne abbiamo avuti praticamente in tutte le città. 

Francamente è difficile capire come uscirne. Forse un brusco ridimensionamento potrebbe aiutare. Non siamo in grado di reggere la tensione. Se arriviamo ai piani alti poi dobbiamo vincere, altrimenti preferiamo frequentare i sobborghi periferici. Monica Scozzafava sul Corriere del Mezzogiorno addebita la responsabilità a una squadra internazionale che appare distante e non sembra sudare la maglia. Tesi che ovviamente non condivido. Saranno i prossimi anni a stabilire la portata di questa stagione. Però mi sa che dobbiamo riflettere e guardare anche un po’ chi siamo. Se è fallimentare quest’annata, allora sono state fallimentari almeno il 90% delle annate della nostra squadra del cuore. Che, ripetiamo, se è del cuore è del cuore sempre. Altrimenti non sarebbe chiamata così.

Vi lasciamo con questa classifica. È la graduatoria all time in serie A. Dal 1929 ad oggi. Il Napoli è settimo. E se guardate bene, solo recentemente ha superato Torino e Bologna.
Forza Napoli
Massimiliano Gallo

ilnapolista © riproduzione riservata