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Il silenzio-stampa emargina ancor di più il Napoli dalla cronaca nazionale. Resta solo la verbosità urlata locale

Il silenzio-stampa emargina ancor di più il Napoli dalla cronaca nazionale. Resta solo la verbosità urlata locale

Vinciamo bene, finalmente con il piglio ritrovato e spavaldo della grande squadra, ma continuiamo a masticare amaro. Perché anche il ciuccio, come il lupo, perde il pelo ma non il vizio. A Cagliari, ecco il punto, gli azzurri non si sono sforzati più di tanto per prendersi i tre punti, risparmiando energie per il ritorno di Coppa, e questa è cosa buona e giusta, ma agli appassionati il dopo partita, che è quasi più piacevole, a volte, della partita stessa, ha riservato alcune spiacevoli sorprese. O, se si vuole, sgradevoli conferme. Se, infatti, proviamo a mettere insieme e a mescolare i tanti motivi di delusione – il difficile rapporto tra presidente e tecnico che condiziona oltre il lecito le cronache sportive, le polemiche indotte dalla conferma del ritiro non più punitivo ma terapeutico, il toto allenatore del quale, evidentemente, non si può fare a meno e, per concludere in armonia, la nuova mortificante offensiva del teppismo romano che la giustizia, non solo sportiva, non riesce a sradicare – si ottiene un cocktail che proprio non riesci a mandare giù.  

«A Napoli non avrete mai niente di buono» diceva a mio padre, che è stato dirigente del settore giovanile del Napoli, il vecchio Eraldo Monzeglio, terzino destro – non esterno basso – dello squadrone due volte campione del mondo nel ’34 e nel ’38 e allenatore di una delle tante stagioni poco felici della squadra azzurra. Aveva ragione, ma farci male da soli è uno dei nostri passatempi preferiti. Solo a Ottavio Bianchi, bergamasco di ferro impastato con la stessa materia prima che aveva reso invulnerabile ai colpi della napoletanità più deteriore l’allievo di Vittorio Pozzo, riuscì  l’impresa di “isolare” la squadra (tranne Maradona) rendendola in qualche modo impermeabile rispetto alle insidie dell’ambiente e facilitando in questo modo la conquista dello scudetto. «Pigliatevela con me» ma lasciate in pace i giocatori. Parole sante, scenario irripetibile.

Un quarto di secolo fa al “feroce” Ottavio l’impresa riuscì, ma Rafa vive in tempi di Sky calcio show e non riesce a liberarsi dall’abbraccio mortifero del circuito mediatico votato più al gossip che al rispetto della notizia che, se è importante, viene sempre prima di quella più pruriginosa. Il dopo partita amaro e indigesto nasce da queste cattive abitudini ormai radicate. Al silenzio imposto da Aurelio De Laurentiis a Benitez e ai giocatori è seguito il disinteresse dei commentatori dei salotti televisivi – Sky e Rai – i quali hanno dedicato il novanta per cento delle immagini e delle analisi allo scialbissimo derby della Madunnina, senza gol e senza emozioni, e solo le briciole a tutto il resto della giornata e, soprattutto, ai nuovi rintocchi di crisi di Roma e Lazio evidenziati dalla ritrovata compattezza del Napoli che ora sembra nuovamente in grado di far valere il suo enorme potenziale offensivo. E ha riaperto la competizione per l’accesso alla zona Champions.

Mettere la sordina su questo aspetto – magari per punire il comportamento della dirigenza del Napoli – è giornalisticamente un errore perché, al punto in cui siamo, è questo l’unico motivo di interesse che riserva un torneo altrimenti “morto”. Se questo è vero, e lo è, la scelta di premiare il no-gol di Milan e Inter, due squadre asiatiche, per giunta, appare davvero incomprensibile. Così è se vi pare, però, e ai napoletani tocca farsene una ragione: il talk show calcistico vive di eccessi e passa dal “silenzio” del circuito nazionale alla verbosità urlata di quello locale. Si cade dalla padella nella brace, a meno che non si abbia la capacità di isolarsi. Che è cosa impossibile alla nostra latitudine calcistica e ne è consapevole più di qualsiasi altro il presidente don Aurelio. Al quale rinnoviamo un messaggio che già gli è pervenuto: chiudiamo in bellezza quest’anno. E poi pensiamo al prossimo. Il futuro si può costruire senza distruggere il presente.
Carlo Franco

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